Tutti meritocratici col culetto mio

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Si parla tanto di meritocrazia, ultimamente. Così tanto da correre il rischio che la parola, "meritocrazia", perda il suo significato. Il termine, che peraltro quando fu coniato aveva un sapore dispregiativo, intendeva sintetizzare il concetto che dovrebbe governare chi se lo merita. Da molto tempo ormai il termine è slittato verso il mondo del lavoro: non si tratta di governare, ma semplicemente di trovare un posto dignitoso. Siccome si dà ormai per tristemente scontato che non ce ne siano per tutti, occorre selezionare quelli che *se lo meritano*. Come si fa? Se chiedete al ministro dell'istruzione e al suo entourage, non c'è il minimo dubbio: concorsi. In teoria non fa una grinza.

In pratica si tratta di dire a migliaia di precari in tutta Italia, che lavorano nella scuola a volte anche da dieci anni, che *non si meritano* di fare quello che stanno facendo. Perché non hanno mai superato un concorso. Un concorso, peraltro, che negli ultimi dieci anni non c'è stato. Magari lo avrebbero superato, non possiamo saperlo. Quel che sappiamo è che tanti di loro hanno continuato a lavorare anno dopo anno, assunti il 15 settembre e licenziati il 30 giugno, senza mollare. Questo potremmo anche considerarlo un titolo di merito (perlomeno sufficiente a farli accedere a un concorso riservato), ma corre voce che no, non lo sia. Peraltro in tutti questi anni hanno avuto la brutta idea di invecchiare un po', di infiacchirsi, di deprimersi, contribuendo a rendere la scuola italiana un luogo grigio e desolante. Invece coi nuovi concorsi meritocratici dovrebbero arrivare un sacco di giovani che sanno le risposte giuste a un sacco di domande, il che è evidentemente più meritocratico.

Rimane il solito problema. Chi fa le domande? E soprattutto: perché non riesce mai a farle bene? (Continua sull'Unita.it, H1t#143)

Ho qui il ritaglio di un’intervista che Gregorio Iannaccone, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi, ha concesso a “Repubblica” qualche giorno fa. L’ho trovata strepitosa. A una lettura svogliata sembrerebbe che Iannaccone abbracci del tutto le teorie meritocratiche del ministro Profumo (sin dal titolo: “Dal ministro una scelta vincente / in cattedra serve più meritocrazia”!) A legger meglio, però, ci si accorge che Iannaccone di concorsi non ne vuole. Per un semplice motivo: sembra che al Ministero nessuno sia in grado di scrivere un test senza infilarci errori e strafalcioni, che portano spesso al ricorso.
Il guaio è che ha ragione. Nel test per il concorso presidi una domanda su cinque era sbagliata. Stessa percentuale nei test per gli insegnanti (ne abbiamo parlato qui). A questo punto l’intervistatore gli chiede se non sia il caso di “affidare la gestione dei concorsi alle scuole”. Iannaccone però ha il buonsenso di osservare che se sbaglia il ministero, sbaglieranno anche le scuole. Cioè, non c’è proprio niente da fare: sbagliano tutti, “l’errore è fisiologico”. E allora? E allora ci vuole “una formula più snella, con una valutazione affidata alle scuole e alle università: sono loro a capire di che docenti hanno bisogno e a conoscere il percorso post-laurea dei candidati. Al curriculum dovrà poi affiancarsi un colloquio finale, affidato a una commissione”. Se ho ben capito, per le università si torna al vecchio sistema per cui una manciata di professori si affronta in una stanza per decidere a chi spetti assumere stavolta il pupillo che magari da anni si fa un mazzo gratis. Siccome è un sistema che ha funzionato tanto bene, si propone di estenderlo anche alle scuole: i presidi prenderanno i curriculum, si ritireranno in un’aula con una “commissione”, e poi telefoneranno a chi gli pare. Meritocrazia!
Ma forse ho capito male. Mi resta una semplice obiezione: preside Iannaccone, se al ministero non sanno scrivere i test, non è che forse non *si meritano* di lavorare lì? Non si potrebbero semplicemente licenziare, non si potrebbero sostituire con persone che siano in grado di scrivere i test? Sul serio è impossibile scrivere test senza una domanda sbagliata su cinque? Sul serio un 20% di errori è “fisiologico”? E perché tutti quelli che parlano di meritocrazia danno la sensazione di preoccuparsi soltanto della meritocrazia degli altri? http://leonardo.blogspot.com
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La supplente

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(2009)
Agosto
Carissimo Aureliano! Come sta il mio anarcosindacalista prediletto?
Ti scrivo per condividere teco il gaudium magnum: ho rassegnato le dimissioni dal dipartimento. Dimissioni ufficiose, evidentemente, giacché il tignoso cattedratico che ho servito e riverito per un lustro tondo s'era ben guardato dal regolare la mia posizione con un qualsivoglia contratto. O tempora, o mores... Cinque anni della mia unica vita dilapidati alla corte di un barone senescente – consumati a completargli le ricerche, a gonfiarne le bibliografie, per tacere di tutte le sessioni d'esame che mi sobbarcai in sua vece, e tutto questo a che pro? Per vedermi sgraffignare un assegno di ricerca dalla prima figlia di un sodale del congiunto della collega di un ateneo lucano? De hoc satis: mi sono infine affrancata dalla schiavitù. Ora almeno avrò tempo per finire quel lavoro sugli scoliasti del Millecento – ma no, non temere, non verrò inghiottita dal Maelström della disoccupazione. Nel mentre che cerco un'occupazione confacente alla mia formazione (impresa ardua, lo concedo), ho accettato a partire da settembre una di quelle supplenze presso una scuola media secondaria inferiore che da anni mi vengono offerte e che ho sempre snobbato. Per una come me, avvezza a interagire con studenti ultraventenni, sarà senz'altro un'esperienza curiosa, ma (mi auguro) formativa. Chissà che non riesca a introdurre qualche diavoletto preadolescente ai misteri della filologia medioevale.

Settembre
Saluti da un'ormai ex giovane promessa della filologia. Scusa se non ho risposto alla tua cartolina con qualcosa d'altrettanto kitsch, ma ero praticamente rinchiusa in un monastero apuano dove mi sono portata avanti con la mia ricerca sugli scoliasti – e nessuno smerciava cartoncini illustrati. So che riderai nel leggerlo, ma è stata un'estate meravigliosa. Comunque, è giunta al termine.
So che friggi di condividere le mie impressioni sul mio nuovo ambiente di lavoro. Ebbene, i colleghi sono più o meno la congerie di frustrazione e pressapochismo che presagivo. Tu che sei il solito materialista mi dirai che è una questione di stipendio; che nessun ingegno men che mediocre può rimanere a lungo in una posizione professionale così mal remunerata. Come se l'università, da cui provengo, fosse più generosa coi suoi giovani addetti... del resto non c'è bisogno di ripeterci quanto i lavoratori dell'intelletto siano svalutati ovunque. Eppure in nessun contesto mi era capitato di percepire una rassegnazione così disperata come nella sala insegnanti da cui provengo dopo una riunione di tre ore. E dire che i prepuberi non mi sembrano quei selvaggi descritti a tinte così fosche dagli organi di stampa. Non che li conosca ancora molto, le lezioni sono cominciate da appena una settimana – ma mi paiono grosso modo vivaci come lo erano i miei compagni ai nostri tempi. Rammenti? Se seppi conquistare i vostri favori smerciando compiti e ripetizioni, non dovrei faticare troppo ad attirare la loro attenzione, ora che ho un bagaglio ben più ricco di nozioni da offrire. Già ora mi sembrano ben disposti nei miei confronti: quando gli racconto del medioevo mi ascoltano per ore intere, alcuni a bocca aperta. Non so quanto riescano effettivamente a seguirmi, ma si tratta di seminare: qualcosa crescerà.

Ottobre
[...] quanto ai miei studenti, dopo un paio di settimane trascorse a raccontar loro, sostanzialmente, gli affaracci miei (affaracci pure non privi d'interesse linguistico) ho pensato che fosse tempo di verificare le loro competenze linguistiche, e ho impartito loro il primo tema. È stato uno choc.
Più di metà della classe è praticamente analfabeta! Per alcuni di loro sembra troppo ambizioso anche l'obiettivo di tracciare segni consequenziali lungo le righe di un foglio protocollo: vanno su e giù tracciando grafi mostruosi. Li si direbbe tratti a forza da una caverna, non da scuole elementari di un certo prestigio. Persino i più bravi non hanno idea di cosa sia la punteggiatura: alcuni ficcano virgole e punti alla rinfusa tra le parole di un tema già composto, come pittori informali che ritocchino la loro opera scuotendo il pennello delle ultime gocce di tempera. Ovunque strafalcioni, termini dialettali, anglismi storpiati... alcuni di loro quando non sanno compitare una parola la sostituiscono col disegno, o con le orribili “faccine” mutuate da internet e dalla telefonia cellulare: il risultato sono rebus inintellegibili che mi fanno rimpiangere i manoscritti che sfogliavo quest'estate.
Correggere quei brogliacci è un'impresa disperata – non di rado l'inchiostro rosso delle mie correzioni sovrasta il nero e il bleu delle loro bic incerte. Ma poi, che senso ha segnalare i loro errori per iscritto? Tanto non riusciranno a interpretare nemmeno i miei segni...
Peraltro, è una faticaccia che non mi aspettavo. Tutto il tempo che speravo di dedicare alla rifinitura del mio saggio sugli scoliasti se n'è andato in queste disperate e (temo) inutili correzioni. Ho faticato anche a trovare il tempo per rispondere alla tua mail, come vedi. Scusami ancora, tua [...]


Novembre
[...] Dal fronte degli asini nessuna novità. Anzi, ti dirò: per qualche tempo ho temuto che a me inconsapevole fosse stata affibbiata una classe di minorati. Ma il collega al quale ho esibito i brogliacci ha scosso la testa e mi ha, per così dire, rassicurato: il livello dei miei studenti non si discosta molto da quello delle altre classi, così come il nostro istituto non si discosta dalla media nazionale. Con una profonda rassegnazione, di cui ora comprendo meglio le cause, mi ha spiegato che l'abbassamento della competenza linguistica dei bambini è un fenomeno ormai riconosciuto, e in parte riconducibile all'inserimento nella scuola elementare di altre materie, come la lingua straniera o l'informatica, che hanno sottratto ore importanti alla lingua italiana. L'afflusso di bambini stranieri da alfabetizzare ha completato il quadro. Il collega si è perfino provato a consolarmi! Mi ha detto che meno sono pratichi del linguaggio scritto, più tendono ad affidarsi alla comunicazione orale, per cui diventa relativamente più semplice catturare la loro attenzione raccontando delle storie. Me ne ero già accorta, si bevono tutto! Ma descrivendo le mie avventure medievali non ero consapevole di partecipare a mia volta a un'operazione di regressione culturale... dunque è quello che sono diventata? La maestrina dalla penna rossa che racconta favole a bimbi con la bocca aperta? No, questo no.
Ho fatto un esame di coscienza: forse avevo preso questo lavoro sottogamba, credendo che si trattasse di svolgere mansioni già ben definite, a cui avrei potuto dedicare solo una piccola parte del mio tempo e del mio intelletto. Avrei dovuto capire subito che le cose non stavano così. Ma credo di avere ancora tempo per rimediare ai miei errori.
Così ho fatto a me stessa un giuramento: alfabetizzerò questi somari. Li bombarderò di grammatica, li tempesterò di dettati: loro sbaglieranno e io li correggerò, dovesse essere l'ultima supplenza che accetto. Tu mi conosci: non pretendo di saper fare di tutto, ma quel poco che so fare voglio farlo bene.

Dicembre
Carissimo, buon Natale! Io non l'ho mai atteso con tanta trepidazione da quando a undici anni mia zia mi promise la Barbie Monaca. No, stavolta non ho in programma alcuna vacanza-studio in un eremo, ma ho qui a casa una pila di quaderni da correggere che sfiora il soffitto.
Il fatto è che finché non cominci a fare questo mestiere non puoi capire che lavoraccio sia correggere. Per spiegartelo devo fare affidamento ai tuoi ricordi di scuola, rammenti i pomeriggi trascorsi davanti a qualche esercizio nemmeno troppo lungo o complicato, ma comunque noioso e ingrato? Ricordi come bastasse una breve versione, o qualche espressione matematica, o un capitoletto di storia da studiare, a riempire di angoscia quelle ore che in teoria avrebbero dovuto essere le migliori della nostra vita? E la fatica impiegata non tanto a tradurre dal latino o a risolvere le operazioni, no, ma a trovare la forza morale di alzarsi dal letto, spegnere un telecomando, zittire la radio, chiudere la rivista ed estrarre un libro dallo zainetto, ecco, ti devo confessare che le ultime settimane mi sembra di averle trascorse così, a ingannare il tempo mentre la Pila dei Compiti in Arretrato si allungava, in piena regressione puberale. I miei pomeriggi sono inghiottiti da buchi neri di vergogna, addirittura mi capita di bloccarmi ore intere sul divano, davanti a stupidissimi programmi per casalinghe, perché la prospettiva di correggere per la centodecima volta la q di “aqqua”, di “cuadro”, perfino di “squola”, mi schianta. Quello che più mi pesa è appunto il dover ripetere infinite volte le stesse correzioni: mai come ora il rapporto di un insegnante di italiano per ogni sessanta studenti mi è apparso in tutta la sua inicuità. E dire che molti pensano al nostro come a un lavoro creativo! Una catena di montaggio, piuttosto. Almeno funzionasse bene, almeno producesse qualcosa di buono.

Gennaio
[...] Sei stato ben impietoso a rilevare il mio errore... sì, è successo, ho scritto “iniquità” con la c. La tua sorpresa è anche la mia, sai che non sono abituata a refusi del genere.
Ma cerca di capirmi, passo ore intere a correggere sciocchezze, ad accorciare lunghe frasi asintattiche e raddrizzare passati remoti e congiuntivi storpiati, alla fine è normale che qualcosa mi sfugge.
Non so se ti è mai capitato di ripetere una parola a voce alta, o anche solo mentalmente, finché essa non perde il significato e non rimane che una nuda veste di sillabe scorticate: è la stessa cosa che mi capita dopo una sessione intensiva di correzioni di grammatica. A volte ho la sensazione che quel poco di ortografia che riesco a infondere ai miei ragazzi, lo sto perdendo io.
Loro poi non hanno colpa se hanno avuto insegnanti mediocri e remissivi come i miei colleghi, che spesso interpretano il mio impegno come il zelo superficiale di una neofita che non ha ancora capito come vanno le cose a questo mondo, per esempio l'altro giorno il mio collega, te ne avrò parlato, uno di quelli con cui almeno ci si può parlare, mi ha detto testuale: “Vacci piano a correggere la punteggiatura”. E io: perché dovrei andarci piano? È il mio mestiere. E lui, scuotendo la testa: certo che è il tuo mestiere, ma se vai avanti così rischi di bruciarti. Cioè, siamo alle minacce, capisci? Basta l'arrivo di una nuova supplente per farli sentire scomodi sugli scranni sfondati delle loro cattedre, e dire che io all'inizio un po' ci contavo sulla loro collaborazione, e invece no, non mi anno aiutato per niente.

Febbraio
E successa una cosa bruttissima. Pochi giorni dopo l'ultima mail che ti avevo scritto mi é venuta un influenza pesissima, le scuole sono dei focolari di virus non indifferenti. Sono stata a casa dieci giorni e ne ho aprofittato per mettere giù quella ricerca medievale di cui ti parlavo, ti ricordi? Be' la rivista di studi medievali a cui o spedito il mio pezzo me là mandato indietro. Quell'oca della direttrice, una mia ex compagna di corso che se non era per le fotocopie dei miei appunti era ancora dietro a laurearsi, mi scrive che la ricerca “non soddisfa i nostri standard editoriali”??? ed è sempre la stessa rivista che da quando ci lavora lei scazza una bliografia su tre, e hanno il coraggio di criticare, la mia sintassi! Un articolo a cui lavoro da un anno, lo letto e riletto finche non mi e venuta la nausea, senzaltro puo essermi sfuggito un errorino, ma i correttori di bozze ci stanno per questo o no???

Marzo
Caro,
finalmente buone notizie: ti ricordi che ero stata a casa da scuola X 10 giorni? Bhè non me lo sarei mai aspettato, ma la collega di italiano che mi aveva sostituito é passata a farmi i complimenti e ma detto che erano da anni che non le capitava di insegnare a ragazzi cosi preparati in ortografia e in sintassi, e con un lessico cosi ricco e vario, a proprio detto cosi! Mi a anche chiesto qual'è il mio segreto e io:  non cè nessun segreto, gli faccio scrivere e gli correggo, gli faccio scrivere e gli correggo, 6 mesi cosi si vede che qualcosa serve, e tra l'altro io non avevo notato tutto questo milioramento, ma se lo dicono i colleghi penso che probabilmente e vero. Insomma in questo periodo mi sta dando più soddisfazione la scuola che la ricerca!!! ki lavrebbe mai detto??? bacioni

Aprile
Non sto bene
Non e tanto la scuola, la scuola è ok, i ragazzi sono forti, ma i compiti i compiti mi danno la nausea non riesco + a leggerli. O smesso di portarli a casa
Sono sempre stanca vado a letto alle 8 di sera mi sveglio alle 7 sono stanca lo stesso
Pensa che nel frattempo alla rivista anno silurato la tipa che mia rifiutato l'articolo!!!
Il mio professore a detto ke quello sarebbe il posto giusto X me ma io penso ke nn posso propormi in questo stato, faccio tanti errori, hai notato? E appena cerco di correggerli ancora la nausea
Il mio collega un giorno mi a detto secondo me ai perso dei gradi va dall'oqulista, ci sono andata, mi a detto ai perso un grado devi rifare le lenti
Non succedeva da quando andavo alle medie ma già, adesso ci sono tornata
Magari la prossima volta mi mettono lappparecchio per i denti ;-)
Scusa smetto perche mi viene ancora la nausea.
Ciao

Maggio
Il dottore mi a detto che se voglio posso ricominciare a scrivere un po X esercitarmi, e io pensato subito d scrivere a te. Scusa se trovi degli errori, ok???
È stato 1 esaurimento ha detto lui, X lo stress.
Io nn sapevo di essere sotto stress ma lui Signorina si fidi ognuno si esaurisce a modo suo lei si è esaurita il linguaggio
Mi a detto Ci sono quochi che per il troppo lavoro perdono il senso del gusto
e giardinieri perdono il senso dellodorato
lei uguale a perso la cosa ke + aveva coltivato fino da piccola, il gusto X le parole
ma tornerà, ho chiesto, lui a stretto le spalle
poi a suonato il campanello, erano due miei studenti!!! portavano un mazzo di fiori allora o detto: menomale ke nn sono giardiniera! loro nn anno capito.
Mi anno anke scritto un biliettino:


Alla nostra cara professoressa, 

per la pazienza e la dedizione con cui ci ha seguito
in quest'anno meraviglioso,
e con l'augurio di una pronta guarigione.
La classe III H


Post Scriptum: ci manca tantissimoooooo!

Ma mentre cercavo d leggerlo mi e venuto da vomitare e poi mi sono messa a piangere!!! ke vergonia


*******


"Non male, compagno Aureliano, non male", proruppe dopo qualche attimo di silenzio l'ironica Verola, "salvo il trascurabile fatto che avevo chiesto un racconto di morte, e qui la morte dov'è? Dov'è la sua vittoria?"
"Mia signora, se non erro si parlava di morte, sì, ma anche, in un'accezione più figurata, di malattia, di sofferenza, e io ne ho profittato per illustrare la progressiva perdita di senso di una giovane operatrice del comparto cognitario, che con la sua bizzarra sindrome illustra..."
"Seh, seh", interloquì don Tinto, "la verità è che il tuo irriducibile pacifismo t'impedisce di attentare alla vita dei tuoi stessi personaggi, per quanto immaginari".
"Se ho capito bene", disse allora Verola, divertita, "abbiamo qui tra noi uno di quelli che da bimbi si facevano scrupoli a far cadere i propri soldatini in combattimento? Tuttavia non credo che la non-violenza paghi, in narrativa. Per ora Aureliano si è guadagnato una nomination; domani sera vedremo se il nostro amico Parroco saprà trattare con maggior crudeltà i suoi personaggi. E ora a letto, che domani c'è il corso di cucina. Tenetevi per detto che non mi prenderò un partner che non mi sappia preparare un brunch come si deve".
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Il primo voto

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Promesse elettorali

"Buongiorno, è la Prima Esse questa?"
"Sì, ma tu chi sei, signore?"
"Io sono il supplente".
"E la profFarfarella?"
"Non so, immagino che sia ammalata".
"Quindi non c'è".
"Infatti ci sono io che sono il supplente. Quindi voi siete la Prima Esse. Era da un bel pezzo che non venivo qui, ma vedo che, ehm..."

(L'intonaco scrostrato trattiene poche tracce dell'ultima mano di verde marcio. Dal soffitto secentesco - quest'ala della scuola è stato un convento, una casa di reclusione per figli non desiderati - pendono ragnatele ripugnanti, scure come i rami che tastano le finestre e sembrano dita dell'orco che dice: fammi entrare. Tre cartelloni sull'apparato digerente ornano la parete in fondo, chi li ha disegnati si è laureato da un pezzo ed ha lasciato il Paese per sempre. Intorno al termosifone le zanzare africane geneticamente mutate fiutano la carne fresca e scaldano i motori. L'ultima classe che ho avuto qui dentro contava tre dislessici, due asociali e tre possessioni demoniache).

"...vedo che è tutto al suo posto come sempre. Bene. Facciamo l'appello? Abati, Bandiera, Bauadanogou, si pronuncia così? Carotone".
"Catorone".
"Ops, scusa. Dgfhj. Elamiri. Fghkj".
"Fkhjg, non Fgkkj".
"Scusa anche te. Beh, mi sono un po' stancato di questo appello. Ditemi chi non c'è e facciamola finita".
"Scusa signore, ma tu sei un professore?"
"Sì".
"Ma in che classe insegni?"
"Insegno in una classe lontana lontana, dall'altra parte del plesso".
"E cosa insegni?"
"Mah, di solito italiano, storia, geografia..."
"Ma noi adesso avevamo matematica, tu la conosci la matematica?"
"Beh, boh, dipende. Cosa avevate per oggi?"
"I numeri irrazionali".
"Oh, beh, uhm, sentite, ho un'idea. Come sapete alla quarta ora c'è l'elezione dei rappresentanti".
"Cos'è l'elezione dei rappresentanti?"
"Ecco, appunto, potremmo usare questa ora per parlarne, che ne dite?"
"Ma è vero che dobbiamo votare per noi?"
"Dunque, su questo vorrei esser chiaro, perché a volte ci sono dei ragazzini che confondono un po' la realtà coi telefilm e pensano che si tratti di votare per la ragazza-o più carina-o, ecco, no, non c'entra niente. Anzi, se volete un mio consiglio, votate dei tipi anche bruttini ma determinati, perché in pratica si tratta... avete presente il Preside? Ecco, i vostri rappresentanti andranno a parlare con il Preside".
"Ma cosa hanno fatto di male?"
"No, niente! Non hanno fatto niente di male, anzi... dunque, ricominciamo. Vi siete mai chiesti chi comanda nella scuola? Cioè chi ha deciso, poniamo, che la scuola comincia il 15 settembre e che il riscaldamento si accende oggi e la campana suona alle otto eccetera?"
"Berlusconi".
"No. Cioè, anche lui in un certo senso, ma prima..."
"Il preside".
"Beh, senz'altro il preside è importante, ma non decide tutto lui. Ci sono infatti altri organi, per esempio c'è una riunione di tutti i docenti, cioè gli insegnanti, che si chiama appunto collegio docenti. E poi c'è il consiglio di istituto, e ce ne sono altri che sulla lavagna non vi scrivo perché francamente li devo ancora capire io, comunque il senso è che tutti decidiamo un po', nella scuola. I docenti, i collaboratori che sarebbero i bidelli, i funzionari che sarebbero le segretarie nell'ufficio là in fondo, insomma tutti. No, aspettate. Mi sto dimenticando qualcuno. Di chi mi sto dimenticando?"
"Il cane del bidello Guercio".
"Quello in teoria non dovrebbe neanche entrare. No. Parlo di un sacco di gente che viene a scuola tutti i giorni, ma non sono docenti, non sono collaboratori, non sono funzionari, non è il preside, insomma, chi è?"
"Siamo noi".
"Ecco, questa cosa a un certo punto è sembrata ingiusta al preside, che disse a noi insegnanti: perché non facciamo anche un'assemblea degli studenti, con i rappresentanti eletti di tutte le classi? E noi insegnanti gli rispondemmo - io mi ricordo, ero al primo incarico - gli rispondemmo che era una follia, far votare gli undicenni, che se vi lasciavamo soli con delle schede e una scatola per mettercele dentro (si chiama urna elettorale) probabilmente vi sareste mangiati le schede e poi vi sareste buttati dalla finestra, perché insomma, in quegli anni non ci fidavamo molto degli studenti. Ma lui volle provare e devo dire, dopo tanti anni, che forse aveva ragione, nel senso che non c'è quasi più nessuno che si mangia le schede, anche i precipitati dalle finestre non sono aumentati negli ultimi anni, in compenso adesso c'è questa assemblea di studenti che può fare proposte anche molto costruttive".
"Scusa professore..."
"Prova a dirmi Scusi professore, dai".
"Scusi professore, dai, ma non ho capito. Vuole dire che noi possiamo fare delle proposte al Preside?"
"Vedi che invece hai capito benissimo? Soltanto che non potete andarci tutti, dal Preside, e quindi ci mandate due rappresentanti - un ragazzo e una ragazza. Quindi alla quarta ora vi porteranno una scatola, delle schede, e ognuno scriverà sulla scheda il nome di un ragazzo e di..."
"Posso votare per due maschi?"
"No. Devi votare per un maschio e per una femmina".
"Ma io non voglio votare una femmina!"
"Abituati all'idea".
"Ma posso votare per chi mi pare?"
"Beh, sarebbe meglio che qualcuno si candidasse... cioè, qualcuno dicesse a tutti gli altri: voglio provarci, voglio essere io il vostro rappresentante, dal Preside ci vado io... e se mi votate, prometto che gli chiederò... ecco, cosa chiedereste al Preside? Pensateci bene, e mi raccomando, non fate le solite proposte assurde, tipo..."
"Allungare l'intervallo!"
"...è un classico. No, questa non si può fare".
"Perché?"
"Perché l'orario della scuola non dipende dal Preside, ma dall'ufficio da cui dipendono tutti i presidi d'Italia, che si chiama Ministero (la faccio molto più semplice di quanto non sia, ma in sostanza fidatevi), e quindi no, l'orario non si cambia: l'intervallo non si allunga e le lezioni non si restringono".
"E più ore di fisica?"
"Fisica nel senso di Scienze Motorie? Non si può. Bisognerebbe togliere altre lezioni, e quali? E poi nominare altri insegnanti, e probabilmente ci vorrebbe un'altra palestra, e quindi no, non è una promessa elettorale realizzabile, mi dispiace".
"Vabbe', ma allora è una fregatura. Non è vero che possiamo decidere".
"Non potete decidere su tutto subito, tante grazie. Avete undici anni. E comunque chi credete che decida per voi? Il Ministro, lo sapete chi lo nomina?"
"Berlusconi".
"Complimenti. E Berlusconi chi lo ha nominato?"
"Si è nominato da solo".
"No, anzi, ha dovuto spendere un sacco di soldi, mettere i manifesti, perché? Perché è stato e-let..."
"Eletto?"
"...proprio come i vostri rappresentanti, solo che lui è stato eletto dalla maggioranza degli italiani, che ha votato per il suo partito, e quindi il presidente Napolitano lo ha chiamato nel suo palazzo che si chiama il Quirinale e gli ha detto: Berlusconi, ti do l'incarico di formare un governo nominando i ministri che credi siano i migliori sulla piazza, e lui l'ha fatto".
"Ma Napolitano sta a Napoli?"
"No, sta a Roma. Quindi, ricapitolando: l'intervallo non si può allungare perché è di competenza del Ministero, che comunque è stato eletto indirettamente dal popolo italiano che sarebbero i vostri genitori. Educazione fisica non si può raddoppiare. Cosa si può fare?"
"La carta igienica nei bagni".
"Bravissimi! Ecco, la carta igienica è un argomento alla vostra portata. E poi?"
"Le ragnatele".
"Per esempio. Ecco, su queste cose i candidati vi possono fare delle promesse. Per esempio: Se votate per me farò togliere i ragni dai soffitti! Cose così".
"Ma prof, se non li hanno fatti togliere i ragazzi dell'anno scorso..."
"Magari non sono stati abbastanza convincenti. Oppure i ragni sono tornati quest'estate. Nessuna battaglia è vinta per sempre in democrazia. Ma sentiamo la vostra compagna che ha alzato la mano. Ti vuoi candidare?"
"..."
"Non fare la timida, eh? Perché se ti votano dovrai partecipare a un'assemblea con quelli di seconda e di terza, e se non prendi la parola loro di sicuro non te la daranno. Dai. Hai delle promesse da fare ai tuoi compagni?"
"Ma io pensavo... che potevamo chiedere di poter usare i cellulari..."
"Eh, i cellulari. Ma lo sapete che è complicato, il discorso-cellulari".
"Però la profFarfarella..."
"Sapete che all'inizio dell'anno abbiamo fatto firmare ai vostri genitori un avviso che parla chiaro: non li vogliamo vedere. Perché poi va a finire che li usate per scambiarvi le foto, poi si vedono le pareti dei bagni della scuola su facebook, insomma non è tanto bello".
"Però i miei mi hanno detto che lo devo portare lo stesso, perché se mi succede una cosa grave..."
"Tipo che rimani schiacciata sotto un armadio e non riusciamo a capire chi sei, ma ti riconosciamo dal cellulare, una cosa così?"
"Ma no, però mettiamo che foro la bicicletta".
"Eh, capisco. E pensa che per un secolo i tuoi compagni sono venuti a scuola in bicicletta ma senza il cellulare, perché non lo avevano ancora inventato, e quando foravano, sai cosa gli succedeva?"
"No prof".
"Guarda, è una cosa molto triste. Passava un orco e se li mangiava, poi sputava le ossa qui intorno".
"Ma dai prof".
"Sul serio, nel seminterrato abbiamo l'ossario, l'ossario di tutti i bambini che sono venuti a scuola in bicicletta senza cellulare dal Seicento in poi, è una storia tristissima. Pensate anche solo alle povere madri, che al mattino abbracciavano il bambino pensando che poteva essere l'ultima volta che lo vedevano..."
"Prof, lei non ci sta prendendo molto sul serio".
"Hai ragione, scusa. Comunque la questione è molto semplice: se un prof vi vede il cellulare ve lo sequestra, ma il prof non ha il diritto di perquisirvi, quindi se lo tenete spento... ma per spento intendo spento, non come quelli che dicono che tolgono la suoneria e poi hanno un vibro che vengono giù le tegole".
"Però alla profFarfarella le suona sempre".
"Ma quello che c'entra scusa, lei è una prof... le prof hanno regole diverse"
"Ma una volta che faceva lezione le hanno telefonato dieci volte per offrirle dei lavori e lei diceva sempre di no e metteva giù".
"Ecco, lo so perché ci sono passato, si vede che la vostra prof è una precaria, cioè il suo nome è in una lista, e quando in una scuola si libera un posto, devono chiamarla, e finché lei non risponde anche solo per dire di no, loro non possono chiamare un'altra, capite? Per cui uno deve portare sempre il cellulare con sé, ma è per una cosa seria, mica per l'orco delle ruote sgonfie. Guardate, gli adulti hanno delle preoccupazioni che voi nemmeno..."
"Ma di solito lo usa per chiamare suo marito".
"Magari suo marito sta molto male, che ne sai. Non si deve mai giudicare il p..."
"Ma gli dice delle cose tipo Butta la pasta"
"Stavamo parlando di candidati alle elezioni. Qualcun altro si vuole candidare, o anche solo suggerire delle proposte? Tu là in fondo, dai".
"Io... la macchinetta delle merendine".
"Ecco, guarda, me l'aspettavo. Perché sto invecchiando. La macchinetta delle merendine, ragazzi miei, io capisco che vi possa sembrare una cosa fantastica, ma credetemi, è un diabolico arnese. Una volta ce l'avevamo, sapete?"
"Infatti mia sorella..."
"Ecco. Però forse tua sorella non ti ha raccontato di quando passava metà dell'intervallo a far la fila per comprare una merendina che costava dieci volte il prezzo che spenderebbe tua mamma al supermercato. E tutte le monetine che si è mangiata senza restituirle. E tutte le volte che premendo schiacciatina usciva il terribile fruttino alla pera appicicosa. Lo so anch'io che fa scena, una bella macchinetta delle merendine, ma quando il principale passatempo dei ragazzi di terza diventa prenderla a spallate, e i bidelli li aiutano pure... insomma c'è un motivo se l'abbiamo tolta e..."
"Ma al piano di sotto ce l'hanno".
"Ma quella è la macchinetta dell'acqua".
"Ma adesso ci hanno messo dentro le merendine".
"Sul serio?"
"Sììììì".
"Questa è un'ingiustizia però".
"Allora possiamo chiederla anche noi?"
"Beh, in linea di... cioè io non vi appoggio assolutamente... ovvero vorrei che fosse messo a verbale che è una proposta che non condivido, però se al piano terra l'hanno messa, voglio dire, voi chi siete? I figli delle badanti?"
"Ma prof".
"Dicci".
"Nella scuola elementare che facevo io, nell'intervallo, passava il bidello Giorgio col carrello con le focaccine".
"Ma pensa".
"Che erano molto buone perché le andava a comprare calde nel forno, e c'erano anche le fette di pane con la marmellata o la nutella".
"E la tua scuola si chiamava".
"Santissimo Cuore Addolorato della Beata Vergine".
"Invece questa si chiama Scuola Pubblica, benvenuta. E' la campana, questa? Scusate, eh, resterei con voi tutto il mattino, ma devo andare dai miei".
"Ciao prof"
"Si dice arrivederci".
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Carta vince Sasso

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Manuali di retorica

Lo avrete sentito anche voi: Dell'Utri vuole cambiare i libri di storia per le scuole. Forse non riuscirà a dedicare un paragrafo all'eroismo di Vittorio Mangano, ma sicuramente vuole togliere un bel po' di "retorica della resistenza".

Ora, mi rendo conto che discutere delle uscite di un politico, a poche ore dalle elezioni, non ha molto senso: Dell'Utri probabilmente è caduto in un tranello (teso dall'insospettabile Klaus Davi), voleva dare un segnale a destra ma lo avranno sentito meglio a sinistra, dove a certe cose ci tengono. E poi chissà se ha mai veramente aperto un manuale di storia tra le centinaia pubblicate negli ultimi dieci in anni.

Vorrei soltanto chiedere, a tutti quelli che sono interessati al problema e magari condividono il punto di vista di Dell'Utri: perché per una volta non arrivate coi libri aperti, e i paragrafi retorici sottolineati? Allora sì che diventerebbe una discussione seria. Un po' come quelle che si fanno su wikipedia, dove alla fine carta canta: proprio così, nelle discussioni sul web la carta vince. Curioso, se ci pensate.

Io lavoro nella scuola da qualche anno, ormai, e devo aver cambiato almeno sei manuali (nessuno scelto da me). Ho accompagnato cinque classi all'esame di licenza media, e ogni volta mi sono assicurato che portassero il programma almeno fino al 1948. Tutta questa retorica nei libri non l'ho vista - ma forse sono di parte. Parliamone. Fatemi degli esempi, spiegatemi cosa ci trovate di retorico, datemi esempi di quello che per voi è la retorica. Se per esempio un eccesso di pruderie ha finora trattenuto gli autori dal trattare del massacro degli omosessuali a opera dei nazisti, io sono d'accordo a emendare il libro di testo. Però cerchiamo di non strumentalizzare la cosa: fino a qualche anno fa l'omosessualità era un tabù a sinistra come a destra, e in molte classi lo è ancora.

Sarebbe bello riuscire ad affrontare il problema senza ricorrere a circolari - per inciso, la circolare del prefetto che mi impone di ricordare in classe, in qualsiasi classe, il dramma delle foibe, io la considero un attacco alla mia professione. Non spetta al prefetto dettarmi il programma, e le foibe vanno studiate al momento giusto. A scuola si studia la storia come una progressione di cause ed effetti, non si fa l'Almanacco del giorno. Ma questo è già un altro problema.
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Il futuro di chi ha memoria

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Sabato a scuola non si trovava un videoregistratore, neanche a pagarlo. Tutti prenotati da mesi. Nei corridoi echeggiavano voci stentoree, gridi disperati. “Achtung Juden!” “H'raus!” “Tod und Verzweiflung!” E' un'altra Giornata della memoria.


Servirà a qualcosa? Questi ragazzi ricorderanno? O anche questi ricordi non sono destinati a perdersi come lacrime nella pioggia martellante di Scusa se ti chiamo amore e/o Alien vs Predator 2?

Dopo anni di martellamento a furia di Schindler's List e Il Pianista e La Caduta, credo di sì, credo che qualcosa resterà. In fondo sono piccoli, s'immedesimano in tutto.

Così a volte penso a me stesso più vecchio, mentre faccio una fila nella nebbia. A un certo punto un giovane seduto a un banchetto mi chiede COGNOME E NOME.
“Randolla Matteo”.
“Randolla... un suo parente non faceva il maestro alle medie di *****, per caso?”
“Veramente ero io”.
“Era lei? Il Prof Randolla?” Si alza di slancio, rivelando due metri di eleganza un po' marziale. “Professore, sono io! Galavotti Enea, si ricorda? La terza effe del duemiladieci!”
Queste cose io le odio, perché i nomi e i volti sono il mio punto debole, così corrugherò un attimo la fronte e poi la distenderò facendo finta di ricordare, e nel frattempo continuerò a frugare nei resti della mia memoria, alla ricerca dei medesimi occhi verdi, di un naso analogamente schiacciato, e di quel nome, Enea, Enea, Enea.
“Ah, bene, Enea, vedo che ti sei sistemato!”
“Se n'è accorto, eh?” E si tocca le spalle, indicando un distintivo o una mostrina di cui in realtà io ignoro il significato. “E se tutto questo va a buon fine ci dovrebbe anche essere una promozione”.
“Beh, in bocca al lupo”.
“Professore, devo dirle, in questi anni ho pensato molto a lei”.
“Ah, sì, beh...”
“Vede, ne ho discusso anche con i miei coetanei, e siamo arrivati alla medesima conclusione: gli anni delle medie sono stati i più formativi”.
“Ah, però. Chi se l'aspettava”. (Io, no. Io pensavo di gestire un parcheggio tra le elementari e il liceo).
“Sì, perché in quegli anni hai la mente e il cuore... come dire... teneri. Si plasmano su quello che trovano, capisce. E io ho avuto una grande fortuna a incontrare lei”.
“Ah, davvero?”
“Ho ancora vivide nella memoria le immagini che ci proiettava, tutti quei film... a volte penso che tutto quello di buono che ho fatto nella vita lo devo a quei film”.
“Tutto questo è molto commovente, Enea, ma fa un po' freddo, la fila è lunghissima e sento che dal fondo qualcuno ci sta maledicendo”.
“Ma non si preoccupi. Senta (mi prende sottobraccio, la sua uniforme di ufficiale si strofina sul mio pigiama liso). Noi adesso qui dobbiamo dividervi in gruppi di sei e poi mettervi in fila. Lei cerchi di stare in fondo alla fila. Sempre in fondo”.
“Ma perc...”
“Poi vi portano nel piazzale della palestra, e sparano al torso del primo della fila. La pallottola trapassa e ne ammazza altri quattro, ma a volte l'ultimo si salva, capisce? Se riesce a fare il morto fino a sera può scappare”.
“Ma farà freddo!”
“I cadaveri scaldano”.
“Ma Enea, posso farti una domanda seria?”
“Dica pure, prof”.
“Perché tutto questo orrore, perché?”
“Cosa vuole che le dica, stiamo esaurendo le munizioni, dobbiamo fare economia. O preferirebbe che vi strangolassimo? Converrà che questo è un metodo più pietoso”.
“Ma...”
“E lo abbiamo preso da un film, sa? Quello in bianco e nero lungo lungo, ha presente? Che gran film! Credo proprio che ce lo abbia fatto vedere lei”.
“Sì, però...”
“Aveva ragione, sa? Anche dai film si può imparare. E noi abbiamo imparato tutto. Ora, se non le spiace, devo esaurire questa coda. In bocca al lupo, professore”.
“In bocca al lupo, Enea, e grazie”.
“Ma grazie a lei. E si ricordi. Stia in fondo alla fila. Sempre in fondo”.


- Giornata della memoria 2004.
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don't know much about The Rise And Fall

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Soffrire per uno scopo

Se fossi più furbo, il coccodrillo di Prodi l'avrei scritto e liofilizzato già 18 mesi fa. Invece oggi come oggi non ho molto da aggiungere a quello che ho scritto in novembre, per esempio, o un anno fa, o tante altre volte che neppure mi ricordo. Prodi ha avuto il torto voler mandare avanti un governo di minoranza: qualcosa che in molti Paesi un po' più civili si può fare senza patemi e isterie. In Italia no. Lo si sapeva. Ma si tifava lo stesso.

Di lui cosa resterà? Beh, poco. Probabilmente tra un secolo si parlerà del ventennio a cavallo dei due secoli come dell'“era di Berlusconi”, e solo pochi occhialuti studenti di un corso opzionale scopriranno, un po' perplessi, che a differenza di altri tiranni Berlusconi non rimaneva sempre al potere. Ogni tanto era costretto a cederlo a un'opposizione che aveva il compito di riordinare i conti dello Stato, spaventare il popolo bue con lo spettro delle Tasse, e in questo modo preparare la trionfale campagna elettorale di B., che era poi la cosa che gli riusciva meglio. Questo perché in effetti B. non era un tiranno, ma un semplice tribuno (qui gli studenti strabuzzeranno gli occhi perplessi), e più che a esercitare il potere ambiva a rappresentarlo; più che un governante, uno Sposo Mistico, come gli antichi Dogi che ogni anno sposavano il mare. Lui invece sposava l'Italia di nuovo, ogni due, tre, cinque anni: e ogni volta erano nozze bianche, nozze di vergini.

“Che roba, deh”.
“Ma perché ci siamo ridotti a studiare 'ste stronzate?”
“A me piaceva l'assistente, la moretta, hai presente? Il primo mese manco sapevo il nome della materia. E tu?”
“Io stavo lavorando a una tesi di laurea sulla fine dell'Impero Azteco come suicidio di una civiltà, quando a un certo punto il prof mi ha detto basta, se cominciassimo a impilare le tesi di laurea sul suicidio dell'Impero Azteco potremmo edificare una piramide a gradoni che supererebbe in altezza quella di Palenque, mi ha detto proprio così, perché non ti trovi un'altra civiltà che si è autodistrutta? A me sul momento non me ne venivano in mente altre, così lui ha fatto un sorrisino stronzo e mi ha allungato un antico volume incomprensibile, come si chiama, la Costa...”
“La Casta”.
“Non ci ho capito niente”.
“Devi provare con l'Anthologia Blogorum”.
“Che roba è?”
“Una raccolta di diari adolescenziali del periodo, fa un certo effetto. Si assiste a tutta la crisi in presa diretta, giorno dopo giorno, per anni e anni e anni”.
“Dev'essere struggente”.
“Per quel che ci ho capito, sì, abbastanza struggente”.
“Ma voglio dire – non potevano andarsene semplicemente via? Ce li avevano gli aeroplani, no?”
“Mah, non è chiaro, non sono mai riusciti a localizzare le piste di decollo. Sai, sotto tutti quegli strati di monnezza”.
“Forse non se ne andavano semplicemente perché amavano il loro Paese”.
“Buona questa. Secondo me amavano ancora di più il resto del mondo, e non volevano contaminarlo coi loro vizi congeniti: litigiosità, volgarità, superficialità, approssimazione...”
“Ah, ecco, sono andati in malora per salvare il mondo. Romantico”.
“Se la pensi così”.
“A proposito, e la brunetta poi che fine ha fatto?”
“Nessuna fine, è ancora lì”.
“Ci hai provato?”
“Ma no, per carità”.
“Ma hai detto che ti piaceva”.
“Ma sì, all'inizio mi piaceva, ma poi...”
“Poi cosa?”
“...”
“C'è qualcosa che non va? I tuoi pseudopodi oscillano in modo innaturale”.
“E poi un giorno tu ti sei sedutadifiancoame edicolponelmiocuore noncèstatospazio pernessunabrunetta almondo aproposito”.
“Come?”
“A proposito: se domani diamo l'esame, dopo ti va di festeggiare? Mi hanno detto che c'è un rito di fertilità al rettilario, è da un sacco che non ne vedo uno, e poi...”
“Mi stai chiedendo di uscire con te?”
“Sì, direi di sì, sì”.
“Rispondimi con franchezza. Hai frequentato sei mesi di Lingua e Cultura Italiana del Tramonto solo perché volevi uscire con me?”
“Potremmo dire di sì, sì”.
“Compreso il mesemmezzo che avevo un'inflorescenza al sonaglio destro e sono stata a casa e tu mi hai portato gli appunti di tutte le lezioni, tu che fino a quel momento non avevi scritto una singola riga, una?”
“Uh, te n'eri accorta? Buffo”.
“E quindi insomma valeva la pena che una civiltà di sessanta milioni di umani tramontasse e decadesse in un turbine di ignoranza e pattume, affinché secoli dopo su un altro pianeta ci facessero un corso universitario che tu potessi frequentare per incontrare me?”
“Se la metti su questo piano”.
“Ma non capisci l'orribile ironia di tutto ciò? Quegli esseri senzienti che vivevano sotto Berlusconi, e ne soffrivano, e pensavano che forse tutte quelle sofferenze avessero un misterioso Scopo... e alla fine di tutto si scopre che il misterioso Scopo apparecchiato dal destino era che tu m'invitassi fuori?”
“Ho capito, scusa, fa finta che non ti ho detto n-”.
“Baciami”.
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dal tuo amichevole superego di quartiere

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Sradicati

A volte mi capita di chiedermi se questa città non sia un po' troppo piccola.
Perché forse mantenere un po' le distanze mi gioverebbe; e anche se qui in realtà conosco poca gente, e ho un paio di amici sì e no, ormai lo spazio libero mi si è ristretto intorno; incrocio i miei alunni al parco e i loro genitori al supermarket, e tutti hanno capito dove abito; e non è lontano il momento in cui mi troverò magari in questo stesso locale con la musica che suona, i ragazzi che ballano e qualcuno mi dirà

“Buon anno prof”

Ecco, ci siamo.

“Si ricorda di me?”

No. Troppo grande per essere stato mai alunno. Troppo giovane per fare il genitore. E in generale troppo scuro per frequentare questo posto con profitto. L'indiepop è roba da ariani, non lo sai?

“Tre anni fa”.

2008-3 = L'anno delle serali. Aaaaah, ecco, adesso ti riconosco, come stai? Bene. I tuoi colleghi? Bene. I miei colleghi? Non c'è male. Ecc.

La conversazione si sta già avviando serenamente al termine, quando mi sorprende la terribile illuminazione.
Avete presente quel brutto momento in cui, dopo aver parlato per cinque minuti con una vostra amica, vi ricordate improvvisamente che suo padre/fratello/marito è stato ricoverato tre mesi fa con una grave malattia, e vi rendete conto che in ogni caso dopo cinque minuti è troppo tardi per entrare nell'argomento, e che ormai lei ha concluso che siete dei maledetti insensibili, e stanno proseguendo la conversazione solo per educazione, dopodiché vi eliminerà dalla rubrica e scorderà ogni storiella divertente su di voi? Ecco, a questo punto mi viene in mente che il ragazzo viene da una nazione che è stata sulle prime pagine dei giornali con notizie tragiche per quindici giorni, e sicuramente laggiù ha amici e mezza famiglia, e che sono veramente un mostro a non essere entrato in argomento, e probabilmente lui sta pensando esattamente la stessa cosa, e...

“Senti, e... in Pakistan? Tutto... tutto bene?”
“Mah, niente”.
“Ma avrai qualcuno della famiglia?”
“Non so niente, prof”.
“Perché hanno oscurato le parabole, vero?”
“Non so niente, non mi frega niente, cazzi loro”.
“Ah, ok”.

(Musica. Io penso al Vangelo, chi è mia madre, chi è mio fratello, ecc.)

“Io ormai sono qui, e mi vivo la mia vita. Faccio male?”
“Sei qui da parecchio?”
“Dieci anni che sono andato via da là. Prima in Inghilterra, poi qui”.
“Prima in Inghilterra? E poi qui?”
“Sì”.
“Ma scusa, non stavi meglio in Inghilterra?”
“Troppi asiatici”.
“Ah”.

(Musica. Penso all'odore di un miliardo di cinesi che cucinano nello stesso fuso orario).

“Ma senti, no, scusa, sei asiatico anche tu, no? Come fai a dire...”
“Dove ci sono gli asiatici c'è casino, io non ne voglio sapere niente, si sta meglio qui”.

(Musica. Penso alla fuga dei cervelli).

“Gli asiatici stanno sempre tra loro, non mi piace. Io sto bene qui, ho due o tre amici, li vedo e sono a posto. Faccio male?”
“No, no”.

(Musica. Le ragazze ballano, le frangette oscillanti a tempo. I ragazzi guardano le ragazze. Qualcuno beve, qualcun altro intrallazza, nessuno si fa tentare da un dibattito sul Pakistan. Sono cose che possono accadere solo a me. Te l'immagini qualcuno al mio posto? No, appunto. Solo a me. Cosa c'è che non va in me?)

“Non è che posso sempre preoccuparmi degli altri. Qui ho la mia vita, lavoro, esco, sto bene. Così. Faccio male?”
“No, no. Allora ci vediamo”.
“Ci vediamo eh, prof? Ma lei come si chiama?”

Mi chiamo Leonardo, e faccio il supplente. Non è un mestiere, è un destino.
Giro per questa piccola città, e ogni volta che avverto una mancanza di qualcosa o qualcuno, io supplisco. Stasera per esempio supplisco alla tua coscienza.
Mentre vado via posso sentirti, che continui a chiedere al muro: “Faccio male?”
E poi allo specchietto retrovisore, nella nebbia, fino a Medolla (guida piano!): “Faccio male?”
E più tardi ancora, al tuo soffitto: “Faccio male?”
Ma non posso stare tutta notte a dirti: No, No, No. Sono solo un supplente. Nessun dio – né il tuo né il mio – mi pagherà mai abbastanza.
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e dimezzare i compensi a Citati?

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Non è (più) un mestiere per Signorine

Uno fa il possibile per riuscire gentile e simpatico con tutti, o almeno con le signore, i bambini e gli anziani. Però non è sempre possibile.

A volte uno deve parlare chiaro, a costo di sembrare sgradevole. La verità è sgradevole. La verità è che Pietro Citati non ha capito nulla della scuola, della società e dell’Italia. Proprio lui, che vorrebbe raddoppiarmi lo stipendio? Proprio lui.

La sua totale ignoranza, nel senso etimologico naturalmente, il suo totale non capirci nulla di quello che gli succedeva 70 anni fa e di quanto gli sta succedendo oggi, getta un’ombra inquietante sulla cultura. Se avesse passato 70 anni legato in una grotta – ma no, Citati ha studiato, ha viaggiato, ha letto, ha scritto. Possibile che non sia servito a nulla?

Citati ha la sua ricetta per salvare la scuola in Italia. Ce l’abbiamo tutti. Siamo tutti esperti, dal momento che in una scuola italiana ci siamo pur entrati, anche se è stato 60 anni fa. Ma la scuola che descrive il pregiato critico è una decalcomania imbarazzante. Ci siamo tutti innamorati di una brava insegnante al ginnasio: ma appunto, è stato il ginnasio. La vita poi ci prende a ceffoni quanto basta per farci scoprire che dietro spiegazioni che sembravano chiare stanno fenomeni tutt’altro che semplici; che Machiavelli o Guicciardini non sono amici nostri, ma personaggi storici che vivevano in un mondo radicalmente diverso dal nostro. Perlomeno, oggi la nostra scuola lo fa, o ci prova. Citati no. Lui è rimasto al ginnasio. Lui gli autori li ama. Ci parla, li sogna, "si identifica", ci scrive le letterine.

Citati non è che abbia un progetto di scuola futura da proporre. Ci mancherebbe. Ha solo un’età dell’oro da rammentare. Indovinate un po’: è la sua infanzia. Le maestre erano più amorevoli, Machiavelli e Guicciardini due simpatici compagni di gioco, e probabilmente anche la marmellata nei panini imbottiti era di qualità superiore. Sì. Il mondo era veramente stupendo. In questo mondo, badate bene, le maestre venivano pagate male come adesso, ma erano brave lo stesso, perché… non c’è un perché, è così è basta.

Esisteva l'inconscia convinzione che i professori non appartenessero a nessuna classe sociale: ma ad uno strano regno, dove né danari né vestiti né vacanze costose avevano importanza.

Tutto questo sarebbe naturalmente durato per sempre, se l’armonia universale non fosse stata turbata da un mostro immateriale, chiamato da alcuni “Ministero” e da altri “politica”.

Ci furono periodi relativamente decorosi. Quello, per esempio, nel quale l'insegnamento nelle medie e nei licei fu assunto, quasi esclusivamente, dalle donne: lo stipendio era basso, ma integrava quello del marito; e poi rimaneva tutto il pomeriggio libero da dedicare ai figli. Ma questo interludio non fu lungo. Presto il Ministero elaborò una quantità mostruosa di materiale burocratico o semiburocratico e paraburocratico - riunioni, commissioni, moduli, discussioni, aggiornamenti, delirii - che distrussero i bei pomeriggi liberi, nei quali passeggiare o giocare con i figli.

La prima caduta dall’età dell’Oro, secondo Citati, fu il momento in cui l’insegnamento smise di essere una professione part time per diventare un delirio burocratico. E si capisce. Perché l’insegnante che amoreggia con Guicciardini dovrebbe “aggiornarsi”? Forse che Guicciardini ha pubblicato qualcosa di nuovo? Perché dovrebbe partecipare a riunioni coi colleghi sull’andamento della classe? Perché dovrebbe convocare genitori o essere convocato da psicologi? Citati non sa, non immagina, che anche nella sua epoca felice il pomeriggio delle brave maestrine era spesso consacrato alla correzione dei compiti, e non alle passeggiate al parco coi bambini.

Segue la descrizione del “rapido disastro” della scuola negli ultimi trent'anni. Le cause furono innumerevoli: le conseguenze del voto politico negli anni dopo il 1968 (Citati, che in quegli anni viveva sul pianeta Goethe, è convinto che gli insegnanti abbiano dato “voti politici” per lunghi anni: ci sarebbe da mettersi a ridere, se non ci si trovasse davanti a uno dei protagonisti della nostra cultura) la riforma della scuola elementare, che vide la dissennata suddivisione tra i maestri (come se un solo maestro non fosse capace di insegnare sia aritmetica sia italiano) (qui evidentemente il pregiato critico sta parlando di una riforma che non conosce; del resto, come si vedrà, la sua conoscenza dell’aritmetica è molto approssimativa, e forse la sua maestra delle elementari c’entra per qualcosa). L'immissione, per motivi politici, di moltissimi pessimi insegnanti: la conseguente mancanza di posti per i giovani laureati. Ecco.

Quando parlate di egemonia marxista nella cultura italiana, ricordatevi di Citati. Spiegatevi com’è possibile che in decenni di egemonia culturale questo personaggio abbia potuto sopravvivere, scrivere, vendere, farsi apprezzare, dal momento che la sua visione del mondo è quanto di meno marxiano si possa immaginare. Per lui le classi sociali non esistono: esistono solo maestre appassionate che vivevano in un mondo a parte dove potevano amare il loro lavoro, passare pomeriggi nelle panchine coi figli, e guadagnare nulla. I conflitti degli anni Sessanta non nascono dall’avvento della scuola e dell’università di massa; è solo stata una fase infelice segnata da cortei di ragazzacci che chiedevano il sei politico. Non ci sono nemmeno conflitti generazionali, no; la “Politica”, un mostro tritacarne, genera dal nulla “moltissimi pessimi insegnanti” e li immette nel mercato del lavoro per pura cattiveria. Don Milani non è nemmeno il simpatico prete veltroniano: Don Milani semplicemente non è mai esistito.

Così decrepito da avercela ancora con gli strutturalisti, Citati è convinto che i libri di testo siano infestati dai seguaci di Gérard Genette. E poi ce l’ha con Svevo. Secondo lui i quindicenni non lo possono capire, devono leggere Delitto e Castigo. Io l’ho letto, a 15, Delitto e Castigo. Parlava della Russia: mi ricordo un mazzo di chiavi un’accetta e poco altro. Della Coscienza di Zeno, a 16, ho un ricordo fulgido. È uno dei libri che mi hanno fatto capire cos’è l’uomo. Ricordo il mio compagno di banco, che non sottolineava mai nulla (disegnava soltanto qualche pisello con la matita nei momenti di stress), ma che in uno spazio bianco sotto al finale della Coscienza di Zeno aveva scritto SACROSANTO: a caratteri di scatola, come se si trattasse di scrivere Juve Merda. Lo avete presente tutti il finale di Svevo, no? Il pazzo un po' più ammalato degli altri che si arrampica al centro della terra e la fa esplodere.

(“Perché hai scritto questa cosa?”
“Perché è... sacrosanto”.)

Il pazzo un po' più ammalato degli altri che fa esplodere il mondo, e tutto torna pulito. C’è qualcosa che un quindicenne di oggi non possa capire? La scuola ha tanti problemi, ma Citati non è la soluzione. Al massimo è uno dei problemi.

Citati in realtà è il migliore rappresentante dei difetti della nostra scuola: difetti non sessantottardi, ma gentiliani. Le sue stime tese a dimostrare che economizzando qua e là si potrebbe raddoppiare il salario agli insegnanti testimoniano le carenze di una scuola tutta Latino e Greco, che partorisce ignoranti di matematica ed economia. La sua riduzione della Storia a grandi personaggi, la sua riduzione della Letteratura a grandi scrittori, la sua incapacità di vedere i problemi e le evoluzioni del mondo, testimoniano i ritardi di un sistema scolastico più vicino a Plutarco che a Foucault. È un mondo col quale dobbiamo chiudere, prima o poi. A costo di essere un po’ sgradevoli – del resto la vita è sgradevole.

Non è un sogno Biedermeier, con lungi pomeriggi tra passeggini e panchine; il lavello è pieno e non verrà nessun domestico a rigovernare. La cultura non è un'attività di lusso della classe agiata: è un lavoro che crea un valore, per una società che ne ha più o meno bisogno. E lo è sempre stato. E Citati dov'era? In casa sua, a identificarsi con Kafka e Proust. Va bene. Ma che non salti fuori adesso: senza offesa, è un po' tardi.

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ciao Fournier, meglio tardi che mai

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("Macelleria messicana" non è una frase a caso. Sono le parole dette da Ferruccio Parri, gran capo dei partigiani d'Italia, quando vide i milanesi che sparacchiavano ai cadaveri di Mussolini e dalla Petacci appesi a piazzale Loreto. Un episodio indegno e vile, che secondo Pertini aveva "disonorato" l'insurrezione poplare. Anche D'Alema, recentemente, ha espresso il suo rammarico).

Scampato alle Diaz

Stasera non avrei scritto niente, se non che prima di coricarmi, passando davanti allo specchio, ho visto la faccia di uno che ha scampato le Diaz per pura botta di culo.
Siccome un pensiero tira l'altro, mi sono anche domandato che faccia avrei. Un po' più sbattuta di certo: magari un dente in meno (qualcuno lasciò un dente sulle scale). Forse più calvo, chi lo sa, più rugoso e interessante. Io non voglio passare per un reduce – è ridicolo, Genova furono tre giorni – però capisco perfettamente la gente che va in guerra, la scampa e poi si sente in colpa per tutta la vita. È un senso di colpa strano, misto a una curiosa invidia, e alla voglia di contar balle ai ragazzini al bar.

Io alle Diaz in quel momento avrei voluto esserci. Nel senso che avevo una gran voglia di andarci, venti minuti prima che le Diaz passassero alla Storia. Suona buffo, ma era tutta una questione di blog. Volevo aggiornare il blog, che poi era un modo di avvertire una ventina di persone che l'avevano letto fino a poche ore prima che ero salvo e stavo bene. Era tutto puerile e terribilmente serio allo stesso tempo. Le scuole cablate erano due, una di fronte all'altra: la più grande aveva la Sala Stampa e i server, ma i computer giravano con un cacchio di sistema operativo alternativo che s'inchiodava continuamente. Nelle Diaz invece c'era il vecchio stramaledetto windows duemila. Io dunque, mentre stavo in fila per accedere al sospirato blogger, avevo una gran voglia di provare se lì di fianco c'era meno fila. La Diaz, fino a quel momento, la conoscevano in pochi, tra cui io; io che due sere prima mi ero coricato con le chiavi della Diaz in tasca, perché nel cosiddetto servizio d'ordine del Movimento dei Movimenti si faceva carriera rapidissimamente, bastava continuare a preoccuparsi mentre la gente andava a dormire.

Io dunque ero indeciso se restare lì o andare alle Diaz. Se ci fossi andato, forse oggi passerei i miei pomeriggi a fissare il muro o a guardare i manga, magari soffrirei la depressione e peserei 120 chili; oppure mi sarei liberato di ogni borghese inibizione, come quelli che scampano un disastro aereo e non hanno più paura di nulla, e lavorerei sulle impalcature dei grattacieli, chi lo sa. Se invece fossi rimasto lì in fila, di lì a cinque minuti i carabinieri mi avrebbero semplicemente convinto ad accucciarmi al muro con le mani alzate, mentre sequestravano i server con un sacco di immagini compromettenti (compromettenti per loro, visto che in tutti questi anni non risulta le abbiano usate per incriminare chicchessia). Ma non feci nulla di tutto questo, perché passò Glauco a dirmi che andavano a prendere una birra lì all'angolo e io dissi ma sì, chi se ne frega. Era tutto molto serio, e allo stesso tempo no.

Come Buzzati, quando la sera tornava a casa dal grande giornale e scriveva su un quadernetto il Deserto dei Tartari; come Fenoglio quando da bambino montava sui tetti e s'immaginava di sparare agli invasori, anch'io probabilmente nel mio piccolo pensavo che ci sarebbe stata una guerra prima o poi, almeno una Battaglia, e che solo la Battaglia mi avrebbe fatto uomo. La guerra però non arrivava mai e così ho provato ad arrangiarmi con Genova.
A Genova le cose erano estremamente serie, in effetti, e allo stesso tempo restare seri era spesso difficile: tutto rischiava di diventare puerile da un momento all'altro. La cosa di cui sono più fiero è il servizio d'ordine al concerto di Manu Chao, quelle quattro ore spese a sgolarsi per avvertire i ragazzini di non oltrepassare la linea rossa della corsia ambulanze, e per cortesia di non rompersi l'osso del collo sugli scogli. Mercoledì sera, prima di ritirarmi al campeggio, avevo lungamente cercato di mettere pace tra due skin francesi impasticcati che se le davano in piazzale Kennedy, e non avevano l'età di mio fratello. Poi mi ero scocciato: ero un adulto, non Madre Teresa.

In seguito ci furono le cariche di venerdì, e bamboccioni se n'erano visti molti, in uniforme e in tenuta da movimento. Noi stessi, soliti modenesi, ondeggiavamo da una piazza tematica all'altra, cercando di mantenere un distacco critico, ma anche annusando a pieni polmoni la voglia di mettersi nei guai, il profumo con cui la troia Guerra seduce tutti i ragazzini. Poi era corsa voce di un morto, anzi di due, di tre; dalla città salivano fili di fumo e tutto sembrava allo stesso tempo serio e patetico, e per quanto non fossimo allegri eravamo più che mai fieri di essere lì piuttosto che altrove. Sabato ci eravamo svegliati con la sensazione di essere più che mai nel giusto, e le cariche e la lunga anabasi per i quartieri della città scoscesa in fondo li avevamo vissuti con lo spirito giusto: che era lo spirito d'avventura. All'ora in cui Glauco mi invitò a bere una birra tutto sembrava finito, la tensione era scesa di molto; e l'ansia di aggiornare il blog (l'unico blog a Genova!) poteva sembrare una cosa puerile.

La birreria stava dietro l'angolo e faceva affari d'oro, perché era l'unica rimasta aperta in quel quadrante della città. C'incontrammo una ex compagna di classe di Glauco che si era trasferita in Belgio e faceva teatro e tornava in Italia solo per le rivoluzioni. Quella birra non l'ho mai bevuta – ma la storia credo di averla già raccontata, o no? Ma qui c'è un sacco di gente che forse non l'ha ancora sentita, e allora sedetevi ragazzuoli, che vi spiego. Ci fu un frastuono di sirene, e quando uscimmo a vedere, restammo molto stupiti che non fossero i soliti CC o PS o GdF o Forestali, ma una colonna di ambulanze e Croce Rosse. Magari le aveva chiamate proprio Fournier, che ringrazio. Ho sempre pensato che fossero state molto tempestive, come se i picchiatori delle Diaz le avessero chiamate ancora prima di irrompere.

Voi, com'è giusto, la storia la conoscete dalla A alla Z: il poliziotto che si graffia il giubbotto con un coltello e poi lancia l'allarme (hanno cercato di accoltellarmi), i carabinieri e i poliziotti che entrano, le ambulanze che arrivano, le barelle che escono, il questore il giorno dopo in conferenza stampa che mostra le prove della resistenza armata della Diaz: un piccone fregato al cantiere di fianco, le molotov che poi qualche poliziotto confessò di avere fabbricato, e che in seguito sono misteriosamente scomparse, un sacco di coltellini svizzeri e pacchetti di kleenex da non sottovalutare (se si pensa che la principale fobia dei ragazzini in uniforme da poliziotto erano i fantomatici "palloncini di sangue infetto"). A raccontarlo sembra una comica, col sangue finto e i pugni per finta che fanno saltare i denti per finta.

Quando però le vivi, certe situazioni, ti trovi come nel mezzo della battaglia: non hai la minima idea di quello che sta succedendo. Dopo esserci nascosti per un quarto d'ora dietro la saracinesca della birreria, alla fine cedemmo alla tentazione di andare a vedere cosa succedeva. Non si capiva nulla, e non c'era nessuno che ti raccontasse la stessa cosa. Siccome nessuno mi aveva spiegato che i server avevano preso il volo, io mi fiondai subito all'ufficio stampa per aggiornare il blog, che ora mi sembrava la cosa più adulta da fare; stavo inutilmente cliccando il tasto refresh quando sentii un boato d'umana indignazione che mi scaraventò di nuovo fuori, e mi fece arrampicare sulla cancellata di fronte alle Diaz. Cosa stava succedendo?
"Portano via un morto".

Il morto in realtà era una barella carica delle famose munizioni di cui sopra, ma coperte da un telo verde impermeabile, che faceva un effetto body bag orribile a vedersi. Rimasi appeso alla cancellata per un tempo che mi sembrò interminabile, fregandomi del blog e probabilmente inveendo e fischiando a poliziotti e infermieri, ben sapendo che non era la cosa più adulta da fare.

Più tardi sono entrato, come altri cento, e ho visto le cose che avevano già visto altri cento: ma le ho viste male, in fretta, sicché quando le rifanno vedere in tv (molto di rado) non le riconosco, oppure confondo ricordi televisivi e reali, e mi vergogno. La sensazione di trovarsi al centro delle cose, che ci aveva aiutato a drizzare le antenne per tre giorni, stava svanendo. Ricordo sempre quella porta dei bagni forata da un colpo secco di manganello: m'immagino sempre di trovarmi lì, di chiudermi in bagno, di sentire le botte di manganello e poi di vedere la mano del poliziotto che si sbuca dal foro, trova la maniglia e la apre. Ma non ero lì, per cui in fondo il mio è solo un film come un altro.

Genova mi ha fatto paura, bisogna dirlo: quando tornai a casa continuavo a sentire le sirene, di giorno, di notte, per una settimana. Poi mi è passata.
Genova mi ha dato la scossa, e per alcuni mesi mi ha spinto a fare cose serie; ma in mezzo alle cose serie continuavano a esserci molte storie buffe, ridicole e apparentemente inadeguate, che col tempo hanno preso il sopravvento. Ho concluso che la vita è così, seria e ridicola insieme, che il bambino egotico e curioso che mi porto dentro non deve per forza morire in seguito a una battaglia: può restarsene lì, a patto che non rompa troppo.
Adesso vivo in una città ancora più piccola, davvero una miniatura; continuo ad aggiornare il blog per un motivo o per un altro e non racconto balle da reduce ai ragazzini, perché un reduce non sono.
I ragazzini poi sono terribili, perché ogni anno ne arrivano di nuovi, e non c'è cura migliore alle nostalgie sciocche di una nuova infornata di allegri ignoranti. Questi che stamattina han fatto l'esame sono del Novantatré, cosa vuoi che gli freghi di un tafferuglio che scoppiò a 9 anni? Quello che gli fa drizzare le antenne sono gli argentini torturati sotto lo stadio e lanciati dagli aeroplani senza paracadute. Il desaparecido volante è un enigma che coinvolge Storia, Geografia e Scienze: da che altezza venivano lanciati? Che velocità raggiungevano durante la caduta? Cadevano in moto uniforme o con un'accelerazione costante? Morivano asfissiati, inceneriti come le meteore, o annegavano? Questi sono misteri intriganti per un ragazzino.

Io non vorrei dover aggiungere misteri alla Storia del dopoguerra, che già ne sovrabbonda. Crescendo i miei ragazzini dovranno prendere appunti sull'Italicus, sulla Stazione di Bologna, su Ustica, Piazza Fontana... io vorrei che almeno si risparmiassero le Diaz. In fondo sono un mistero minore, che con un piccolo sforzo da parte dei carabinieri e dei poliziotti onesti si potrebbe archiviare in breve. Non era mica la guerra, anche se "Diaz" ha sempre avuto un suono sinistro (i giornalisti non avrebbero potuto inventarsi di meglio). Si disse subito che era l'Argentina, il Cile. No: erano le Diaz, nemmeno una scuola vera, una piccola palestra in cui le forze dell'ordine dello Stato repubblicano persero del tutto l'autocontrollo, e ancora aspettiamo che ci spieghino il perché.
Dovrebbero farlo. Sarebbe un bene per loro, per il Senso dello Stato dei nostri ragazzini, e anche per me. Personalmente non ho voglia di rivedermi tra cinque o dieci anni in un documentario sgranato, mentre mi appendo all'inferriata come un deficiente. Non vorrei perdere tempo a spiegare a mio figlio perché ero lì. Ero lì perché in quel momento non avrei sopportato di essere altrove: fine.
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what's your destiny

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Chi ha ucciso Goku

Io di Goku mi ricordo bene.
Era un bambino col ciuffo e la coda: aveva tanti nemici e li abbatteva tutti, ma senza umiliarli: perché era forte, ma soprattutto perché aveva il cuore puro. Perciò ogni suo avversario alla fine gli restava attaccato; tanto che andavano tutti a vivere con lui, negli anni si era formata una specie di comune di eroi che le aveva prese da lui, e tutti gli volevano bene. Perché era il più forte, il più buono e il più affamato. Quando Satana si liberò dall’inferno, lui lo sconfisse e fu convocato da Dio in persona, che gli insegnò nuove mosse, ancora più potenti. In seguito crebbe e salvò il mondo varie volte. Quando il mondo non gli bastò più cominciò a salvare l’universo, da mostri via via più mostruosi, disegnati apposta da sceneggiatori senza scrupoli, per allenarlo sempre più: e se è vero che ogni tanto moriva, il suo cuore restava puro e il suo ciuffo alto – e un modo per risuscitarlo si trovava sempre.

Finché un giorno disse no, grazie. Sto bene dove sto, nel mondo dei morti ad allenarmi e a combattere coi morti, all’infinito. Era il migliore, nessun dubbio. Ma non so dire quando se ne andò, quale fu il mostro che lo mise davvero in imbarazzo. Doveva essere il più orribile, eppure non lo ricordo.

Ora invece ricordo un altro bambino, ma eri tu?
“No”.
Senza coda, ma col ciuffo, almeno cinque centimetri d’altezza conquistati ogni mattino con applicazioni intensive di gel. Un bimbo dal cuore puro e dal corredo coordinato: zaino di DragonBall, diario di DragonBall, astuccio di DragonBall, quaderno di DragonBall (ma a settembre non andava bene, ne serviva uno grande con le anelle, e il giorno dopo si presentò con il quadernone di DragonBall). Me lo ricordo bene, il piccolo Goku, mi sembra d’averlo davanti. Ma sicuro che non eri tu?
“Ma sì prof, era lui”.
“No prof, non ero io”.

Nove mesi sono passati, il ciuffo è ancora fermo a 150 cm., eppure guardati. Felpa nera e jeans firmati e… cosa stai facendo col bianchetto, guarda. Stai scrivendo col pennellino bianco D&G, D&G sul tuo astuccio nuovo.

Del resto ora che ti guardo hai tutto nuovo – quanto avrai fatto spendere ai tuoi, non dirmelo. Diario, quaderno, zaino, niente più Giappone. Altri mostri incombono, altre culture, altre sigle. D&G, credi che non lo sappia cosa vuol dire D&G? Io so tutto, perché sono il prof di italiano. Tutto, tranne le equazioni indefinite che lascia sulla lavagna la collega di matematica. Quelle le spugno via immediatamente, per il resto sono onnisciente: non c’è cosa che non so, e ogni giorno ne imparo una nuova.

Per esempio ora so chi fu il mostro che uccise Goku. Era un orrore a due teste, quattro zampe e zero eleganza. Era il peggiore di tutti, Dolce And Gabbana, dal profondo della Galassia Tamarra. Puzzava di svenevole eau de parfum, incantava con lo scintillio allo strass dei suoi accessori ghepardati: neanche il SuperSaiyan poteva resistere a tanto cattivo gusto. È stato lui.
Dolce lo avrà preso alle spalle, mentre Gabbana lo lavorava ai fianchi. Solo loro potevano farlo. Lo hanno ucciso loro Goku, lo hanno spazzato via dal tuo cuore.

Adesso vai, vai, scrivi pure griffe false sul tuo astuccio nuovo. Non c’è una nota disciplinare, per quello che stai facendo. Non posso neanche dirlo ai tuoi: Signora, suo figlio mi preoccupa un po’, tamarro ad 11 anni… Posso correggerti le doppie consonanti e gli accenti, potrei persino insegnarti un po’ di punteggiatura, ma non posso spiegarti perché la scritta D&G sulle mutande è il Marchio del Male. Se non c’è riuscito Goku, il più buono e il più valoroso, posso farcela io?

Vattene per il mondo, va. Suona la campana, è l’ultima. Arrivederci a settembre, e se ci arriverai con un altro zaino, pazienza. È bruciando le tappe che si arriva presto alla saggezza, o no? non lo so. Sono un prof, imparo solo una cosa al giorno.

Mi piace però pensarlo, da qualche parte, nell’oltretomba, non vivo ma in standby, che si allena, si allena, si allena. Un giorno tornerà, a vendicare i puri di cuore e a prendere a mazzate i cafonazzi che se le meritano. Quando verrà quel giorno, non fatevi trovare col marchio sbagliato sulla biancheria.
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peripatetici a Roma

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Dialogo sull’arte contemporanea

“…E questa quindi è piazza del Popolo, e in fondo c’è la chiesa coi Caravaggio”.
“E quelli prof cosa sono?”
“Non ne ho la minima idea. Sembrano soldati”.
“Manichini”.
“Sì, come l’armata di terracotta”.
“Ma no, prof, è pattume".
“Sul serio?”
“Sono fatti con le bottiglie, coi rottami. Questo è rosso perché è fatto con le lattine di cocacola. Ma che roba è”.
“Aspetta che c’è un cartello, vedi. Ah, ecco. Trash People, di Ha Schult. È un’installazione”.
“E cioè?”
“Un’opera d’arte”.
“Un’opera d’arte?”
“Un’opera che portano in giro, vedi? Ci sono le foto. Trash people davanti alle Piramidi. Trash people sulla Grande Muraglia. E adesso qui”.
“Ma che senso ha?”
“C’è sempre sul cartello. Ci fa riflettere sul nostro rapporto coi rifiuti. Ne produciamo talmente tanti. In fondo sono come le nostre piramidi, come il nostro esercito di terracotta che…”
“Ho sete. Mi è venuta voglia di cocacola”.
“Curioso, anche a me. C’è un bar di fronte alla chiesa”.
“Comunque questa non è arte. È pattume.
“È arte fatta di pattume”.
“Ma non è bella da vedere”.
“Dal terrazzo del Pincio deve fare un bell’effetto, invece”.
“Ma insomma, manichini di rusco, ero capace anch’io”.
“Sicuro?”
“Ma certo, come dire che domani vado in discarica e faccio una roba che…”
“Troppo tardi, lo ha già fatto Schult”.
“E non lo posso fare anch’io?”
“No, se copi non è più interessante. L’arte contemporanea è così: vince chi arriva primo. Come la formula uno”.
“E se faccio una roba con… delle schegge di ferro”
“Già fatto”.
“Oppure dei catenacci, dei carburatori e…”
“Già fatto”.
“E allora prendo l’olio frusto e ci faccio una roba che…”
“In un museo a Parigi ho visto roba fatta con le muffe, per cui figurati”.
“E allora con lo sputo, faccio una roba con lo sputo”.
“Già fatto. Pensa che un artista italiano ha già fatto una cosa con la merda”.
“La sua merda?”
“Quarant’anni fa, quindi arrivi un po’ tardi con gli sputi”.
“Una scultura con la merda?”
“Una cosa semplice. L’ha messa in diversi barattoli e ci ha scritto sopra: Merda d’artista. E poi l’ha venduta a peso d’oro”.
“E chi l’ha comprata?”
“I musei, per esempio, l’han comprata. Parigi, New York, quel tipo di posti”.
“Mi sta prendendo per il culo, prof”.
“L’ho vista quest’estate, coi miei occhi. Merda d’artista, di Piero Manzoni. Non confondere con Alessandro”.
“E chi è questo Manzoni”.
“Era un pittore. Ma è famoso soprattutto per la merda nei barattoli. Anche perché è morto giovane”.
“Ma lei l’ha vista sul serio?”
“Ho visto il barattolo”.
“E come si fa a sapere che dentro c’è la merda davvero?”
“Ci sono gli esperti, i critici, è il loro mestiere. Tieni conto che i barattoli li ha venduti a peso d’oro, ma adesso valgono ancora di più. Uno che ha comprato la merda di Manzoni trent’anni fa, a rivenderla adesso si compra una Ferrari. Perché la quotazione è salita”.
“E se adesso in un barattolo la faccio io…”
“Non te la compra nessuno, perché non ti chiami Manzoni. Lui è arrivato prima. Vince chi arriva prima”.
“Ma l’ha fatta direttamente nel barattolo?”
“Penso di no”.
“Ma davvero l’ha vista?”
“Perché dovrei raccontarti una bugia”.
“Che odore sapeva?”
“Nessun odore, dopo quarant’anni…”
“Ma non va a male in qualche modo?”
“Si ossida un po’ il barattolo. Del resto anche i Caravaggi si sono deteriorati. Certo, un conto è restaurare una pala d’altare del Cinquecento. Una merda del Novecento sarà un altro paio di maniche”.
“E quanto ha detto che costa?”
“Non lo so. Più del suo peso in oro, e aumenta”.
“Ma perché aumenta?”
“Si vede che è considerata sempre più importante, di anno in anno”.
“Ma è merda, come fa a diventare più importante?”
“Non è la merda in sé, è il gesto di metterla in un barattolo. È un gesto storico, nessuno aveva osato farlo prima. E anno dopo anno i critici lo considerano un gesto sempre più importante”.
“E se cambiano idea?”
“Se cambieranno idea, chi l’ha comprata a peso d’oro si ritroverà in mano un barattolo di merda”.
“Che fregatura quest’arte moderna”.
“Perché? È interessante, invece”.
“E comunque sono buono anch’io”.
“Prova. Prima però devi farti venire in mente un’idea nuova”.
“La piscia?”
“Figurati. Quarant’anni dopo la merda, arriva uno con la piscia. Banale”.
“Il vomito!”
“Ci avrà già pensato qualcuno. Dai, concentrati”.
“Mi concentro. Un sorso di coca?”
“Grazie”.
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what you see is what you get

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E ora, bambini miei cari, se la smettete di picchiare il down; se restituite la carrozzella al tetraplegico; se tirate giù il nanetto dall’appendino; se l’effemminato si tira su alla svelta i calzoni che i cinque maschioni gli hanno abbassato; se la fazione wahhabita ha smesso di pregare e se la bimba molestata nell’ora di scienze la pianta finalmente di frignare, se l’anoressica è tornata dal bagno e il bullo abulimico ha finito di incamerare merendine potrei raccontarvi una storia! Massì, una storia, dai, che storia vi racconto?

Il Re Impiccione e lo Specchio Magico


C’era tanto tempo fa, in una terra lontana lontana, un Re che si struggeva, perché non conosceva i suoi sudditi. Oh, ma lui ci aveva provato ad andare incontro al popolo, in mezzo a loro a fare domande, come va? Vi trovate bene con un monarca par mio? Ma insomma a parte i buongiorno sua maestà, molto bene sua maestà, non poteva dire di conoscerli davvero. Era sul serio brava gente o no? Le leggi le rispettavano per intima convinzione o per paura delle frustate? Potresti anche fregartene, incassare le imposte e regnare alla benemeglio come i tuoi antenati, gli diceva il Mago di Corte. Ma lui voleva saperne di più. Era proprio un Re Impiccione.

“Se proprio insisti”, disse il Mago, “avrei l’oggetto che fa proprio per te. Eccolo qui, come vedi è uno Specchio”.
“Sì”, disse il Re, “è proprio uno specchio, embè? La faccia mia già la conosco”.
“Ah”, disse il Mago, “ma questo è uno specchio Magico. Premi di qua, gira di là, recita la formula, e vualà: ti mette in contatto con tutti gli Specchi del tuo Regno”.
“Con tutti gli Specchi del mio Regno?” disse il Re, e gli occhi già gli brillavano.
“Proprio così, e con un piccolo sovrapprezzo ti fa vedere anche gli Specchi del Regno qui di fianco”.
“No, per ora non esageriamo”, disse il Re; e premi di qua, gira di là, recita la formula, si mise a scuriosare.

Adesso, se la piantate con gli aeroplanini, con i bigliettini, con le palline di carta, con le palline di pelo, con le palline in generale, con qualsiasi oggetto in movimento, vi racconterò che cosa vide. Vide i suoi sudditi com’erano davvero! Vide per prima cosa che avevano parecchi brufoli, denti gialli rughe e borse sotto gli occhi; e già questo non era proprio un bel vedere. Ma poi cominciò a notare che erano vacui e vanitosi; violenti coi più piccoli e servili coi potenti, e lui mai se l’era immaginato. Vide che si picchiavano per un nonnulla, e gli bastava una parola per far morire il prossimo di tristezza e crepacuore. Vide che si facevano scherzi orrendi, e che non avevano rispetto per niente e per nessuno, e insomma tutto questo non gli piacque, non gli piacque neanche un po’. Eppure passava le ore a guardare questo Specchio. Al punto che la Regina brontolava: ma esci ogni tanto, fatti una passeggiata. E lui: “Taci, scema! Che mi sto tenendo aggiornato”.
“Ma cosa ti aggiorni a fare, prenditi un cavallo e fatti un giro”.
“Ma che cavallo, tu non capisci! Tu vivi in un mondo di fiaba!”
Il che era vero, per inciso. La Regina uscì a lamentarsi con le amiche.

“Aveva ragione mia madre, quando diceva mettiti con un Principe più biondo! Questo è moro e introverso e passa il tempo a guardarsi allo Specchio!”
“È il solito Re pieno di sé”.
“Ma no, è uno Specchio magico che lo mette in contatto con tutti gli Specchi del regno, così può vederci tutti mentre facciamo le smorfie e ci strizziamo i punti neri, ma mi raccomando, non ditelo a nessuno”.
“Naturalmente”.

In capo a pochi giorni si sparse la notizia che il Re Impiccione spiava i suoi sudditi. E quelli allora cosa fecero? Smisero di essere brutti e intriganti? Ma no bambini, non si può smettere d’un giorno all’altro. Anzi continuarono, e se possibile peggiorarono, sapendo che il Re li spiava, e da quel giorno ogni volta che tiravano fuori la lingua davanti allo Specchio, era espressamente per fare una pernacchia al Re Impiccione.

Quest’ultimo capì che la cosa non poteva andare avanti. E allora un giorno ebbe un’idea: prese la penna d’oca e scrisse un Editto Regale. E mandò i banditori in ogni angolo del Regno a dire: “Udite udite! Siccome il Re non ne può più, di vedere dallo Specchio quanto brutti siete ed intriganti, d’ora innanzi vi proibisce di usare i vostri specchi di casa! Rompete quindi i vostri specchi in mille pezzi, copriteli o consegnateli all’autorità competente, con decorrenza immediata, perché smorfie ne avete fatte già abbastanza”.

I sudditi all’inizio non erano molto contenti, ma dovettero rompere i loro specchi o consegnarli, per amore o per forza; e da quel giorno il Re non vide più smorfie e cattiverie e delitti nel suo Regno, e fu contento.

E adesso, bambini miei cari, potete ricominciare a taglieggiarvi gli snack e a farvi di vinavil; se la ragazzina molestata continua a frignare potete provare coi ceffoni; se il ragazzino effeminato è triste può provare a sporgersi dal cornicione; e chi vuol cominciare a giocare a bowling coi banchi, in attesa della campanella, è benvenuto.

Ma se qualcuno osa tirare fuori un videofonino, com’è vero Dio, in virtù dei poteri a me conferiti vi spezzo quelle braccine, e ve le faccio mangiare.
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the spaghetti incident

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Perché non dovremmo chiamarci cristiani

Gita scolastica a Roma, capitale – tra l’altro – della Cristianità. Ara Pacis, Santa Maria del Popolo, Trinità dei Monti, eccetera; e la sera si mangia dalla Nina. Al momento di scegliere il menù, la figlia della Nina previdente ci chiede se abbiamo alunni musulmani.
Non molti, in verità: i turchi sono rimasti a casa per questioni di budget; i pakistani non si sa (dei pakistani non si capisce mai niente). Il magrebino superstite lascia intendere con una smorfia che se nessuno gli avesse chiesto niente non avrebbe disdegnato l’amatriciana, ma se proprio la Nina lo vuol sapere, ebbene sì: è musulmano praticante, e quindi Niente Porco.

Il menù viene dunque passato al setaccio, alla rigorosa ricerca di ingredienti non halal: nel giro di pochi minuti viene riproposto al ragazzo un menù alternativo rigorosamente de-suinizzato e de-alcolizzato, in ottemperanza alla normativa del Corano e del Levitico. E quindi soddisfatti cominciamo a sforchettare: buon appetito multiculturale!

A questo punto una ragazzina arriva e dice: Prof, ma non c’è un menù senza carne?
No, senza carne non c’è, perché? Non dirmi che hai un problema con la carne, adesso.
È che prof, oggi sarebbe Venerdì. Di Quaresima.

E poi uno dovrebbe preoccuparsi per Bagnasco. Bagnasco. Ma si provi piuttosto un paio di pantaloni, Bagnasco: vedrà quanto son comodi. E si posson portare dappertutto: al Tempio come nelle catacombe.
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la classe talebana non piace all'insegnante

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Primavera dei papaveri

Ma è solo Fassino, o stiamo diventando tutti scemi?

Probabilmente il peccato originale è stato chiamarla “missione di pace”. Ma a questo punto dovremmo saperlo tutti che si sparacchia un po’, in Afganistan. Che la vita, insomma, costa poco.

Però, come dire, siamo italiani. Siam convinti che non ci sia argomento abbastanza duro per noi. Parla e parla, e vedrai che ammorbidiamo anche i Talebani. Con un po’ di pazienza, un paio di salotti in tv, due giorni di dibattito, tre giri alla frittata, e vedrete che dopo Sircana e il trans riusciremo a cucinarci anche il Tavolo di Pace in Afganistan. Onorevole Fassino: il Tavolo di Pace in Afganistan? Coi talebani? Ma ha presente la situazione?

Mettiamola così. I talebani stanno a sud, ma anche a est. A nord, guerra tagiko-uzbeka permettendo, ci stanno i talebani. Ah, pare che siano anche a ovest. Insomma, alla nostra alleanza, c’è rimasta solo Kabul e periferia. È un assedio, per così dire. Per di più da un paio di mesi gli americani – che queste cose le studiano – se la stanno menando con la prossima offensiva di Primavera. Può anche essere una scusa per le future irradiazioni di uranio e fosforo, ma per quanto ne sappiamo le cose stanno così: ci hanno circondato e adesso ci attaccano. Come i Sioux a Little Big Horn.

Ma noi siamo più furbi di Custer, perché ci abbiamo Piero Fassino, noi! Che ha deciso che li invita al Tavolo della Pace! "Qualsiasi persona di buonsenso non può che essere d'accordo", ha detto. Eh, beh, certo, controllano due terzi del Paese e stanno per attaccare, vuoi che non accettino la proposta di Piero Fassino? Non sarebbe buonsenso.

E poi ci sono quelli che non sono d’accordo con Fassino, quelli che i talebani, al Tavolo della Pace, non ce li vogliono. Perché sono brutti e sporchi e cattivi, dei veri tagliagole. Eh, beh, certo, se la butti sui diritti umani, effettivamente... Luca Sofri si augura che i sequestratori di Mastrogiacomo siano arrestati. E anche questo, in fondo, è buonsenso. Voglio dire, non fa una grinza, no? Controllano due terzi del Paese? Chiamiamo la polizia che li arresti, così imparano.
Perché, non c'è una polizia, in Afganistan?
Ah, saremmo noi?
Ah.

È due giorni che ne parlano: tavolo-della-pace sì, tavolo-della-pace no. Quanto buonsenso, gente. Nessuno ancora ha provato a chiedersi cosa ne pensino i Talebani. Probabilmente se lo sapessero ghignerebbero alla grande, i Talebani, con quei denti che Mastrogiacomo ha trovato curati e bianchissimi. C’è un piccolo Paese a ovest della Turchia, dove i cani infedeli litigano se invitarci o no a un tavolo! Il 54% vuole e il 51% 41% non vuole. Non fa ridere?

No, non è solo Fassino: 54 + 41 = 95% di italiani un po' confusi. Siamo in armi in Afganistan da 4 anni e non riusciamo ad accettare che laggiù ci sia un nemico. Uno che al tavolo, con noi, non ha mai detto di volersi sedere. Probabilmente pensiamo che ci sia un bottone, da qualche parte. Lo premi e puf! Il nemico non c’è più. È diventato un simpatico signore che ha voglia di sedersi con noi. Che ci abbiamo tanto buonsenso.

***
Vien da dire: meno male che i giovani non vi ascoltano. E invece no. Qualcosa è arrivato anche ai ragazzini.
Stamattina in classe dovevo spiegare cos’è un Soviet. Non è molto difficile: è un’assemblea dove tutti parlano, e chi ha la voce più grossa spesso vince. La rappresentante ne ha approfittato per chiedere cinque minuti di discussione sull’Annuario. Devono decidere se fare la foto in costume. Bello, sì, ma che costume?

Qualcuno propone: personaggi famosi. Onde prevenire una gara a chi somiglia più a Paris Hilton, intervengo col vocione: guardate che Garelli resta Garelli anche se lo vestite da Brèdpitt. No, nemmeno un cartello con su scritto Brèdpritt lo farà sembrare meno Garelli.

“E allora ci vestiamo tutti da Talebani”.
“Non se ne parla nemmeno, no”.
“Ma prof, perchè?”
“Perché? Mi state chiedendo perché?”
“Sì, perchèèè?”

Perché no.
Perché se vi fate una foto conciati da Talebani finite in prima pagina sulla gazzetta, e ci finisco anch’io.
Perché non è uno scherzo, stavolta: c’è una guerra, e ci siamo anche noi.
Io non posso avere opinioni, ma questa non è un'opinione: è un fatto e basta.
Loro sparano ai nostri soldati.
Arrestano i nostri giornalisti e li scambiano coi loro parenti che noi abbiamo fatto prigionieri, perché loro sono i nostri nemici. Come posso spiegarlo più chiaro di così. Nemici.
Si finanziano col papavero, e voi avete studiato cosa si estrae dal papavero. Hanno fatto saltare la borsa mondiale degli oppiacei. Tra due ore sarete a casa e al tg vi diranno che hanno sequestrato un quintale di eroina afgana in Toscana. Un q u i n t a l e.

Ci sparano, ci sequestrano, ci bombardano di droga. Non vogliono fare la pace con noi. Non hanno mai detto di voler fare la pace con noi. Ci hanno circondato e forse in primavera ci attaccano.
“Ma prof, primavera è oggi”.
“Appunto”.
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quest'aula sorda e grigia

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Ciò che la vacca disse al mulo

Mi riferisco, è chiaro, alla proposta di fare l’antidoping a scuola. Mah, ministro Amato, che dire:
- Se era una battuta, non era divertente.
- Se era una provocazione, non troppo provocante.
- Al massimo era interessante come lapsus: perché proprio "dopo l'interrogazione"? Ci si droga prima di farsi interrogare? Da bravo politico, Amato è convinto che gli studenti assumano droga per colmare un’ansia da prestazione (come fanno i politici, appunto). Ma studenti così, se esistono, sono una notevole minoranza (il discorso è diverso all’università, col giro di anfetamine che c’era già ai tempi miei). La maggior parte degli studenti sfattoni continua ad assumere droghe per il solito vecchio motivo che le lezioni sono noiose.
- Ma soprattutto, da che pulpito?

Il Ministro Amato non conosce molto gli studenti. E pazienza. Ma gli studenti, lo conoscono, il Ministro Amato?
È gente che a volte studia, più spesso va a spasso, ogni tanto si droga, e inspiegabilmente cambia canale ogni volta che appare un politico in tv (cambia canale spesso).
Dei politici italiani conosce Prodi, forse; Berlusconi, sicuramente; Luxuria, perché è un trans; i più colti hanno sentito parlare anche di Caruso, che seminava le piantine. E basta. Ah, e da qualche giorno c’è questo Ministro Amato, che vuole fare l’antidoping. Ma da che pulpito?

Per la verità una trasmissione che mostra agli studenti il Palazzo c’è. Non è molto raffinata e rispettosa dell’autorità, ma c’è. È la stessa trasmissione che mostra gli accampamenti dei rumeni in Riva Reno e le rotte dei turisti sessuali padani in Padania. E poi, naturalmente, ha la sua percentuale di appostamenti trash e mogli di calciatori. Ma insomma, una trasmissione c’è: le Iene, Italia 1. Il Ministro Amato dovrebbe averci riflettuto bene.

Perché certo, cinque mesi per un Ministro degli Interni sono tanti; ma per gli studenti in fondo no. A cinque mesi dal servizio delle Iene sull’antidoping a Montecitorio, la percezione che gli studenti hanno dei parlamentari italiani è ancora la stessa: tutti-drogati. Al punto che: “prof, ma a Roma andiamo a vedere il Parlamento?”
“Certo che ci andiamo”.
“E c’è anche Luxuria?”
“Se è presente, ma…”
“Ma è vero che sono tutti drogati?”

Insomma, il Ministro Amato dovrebbe tener conto, quando parla agli studenti, di non essere il rappresentante né della maggioranza di governo, né della tradizione socialdemocratica e ancor prima socialista, né del suo partito (ma di che partito è?), né della Fondazione italianieuropei che continua a prender soldi dalla nota multinazionale del tabacco. No, quando parla ai ragazzi, il Ministro Amato sappia di non essere nulla di tutto questo.

Perché quando parla di ragazzini, quando parla ai ragazzini, il Ministro Amato è prima di tutto il rappresentante di una comunità di grassi uomini potenti che in un palazzo a Roma si tira piste a spese della comunità. Più un trans. E tutti pagano i portaborse in nero. E adesso vogliono fare l’antidoping a noi? Ma si curassero.

Un politico che pretende di fare l’antidoping agli studenti. Suvvia. Il ministro Amato rifletta bene sull’exemplum medievale del bue che dice cornuto all’asino. Nelle scuole italiane l’episodio è tramandato con altre parole, ma insomma, c’intendiamo.
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la scrittura è un'invenzione senza futuro

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Italiano, punto a capo

Qual è la prima cosa che vi è venuta in mente, leggendo la lettera del ragazzo Giuseppe?
Che bravo, che sveglio, finalmente un ragazzo che ci dà la scossa, non ne possiamo più di giornalisti sensazionalisti e prof sfiduciati (che poi alla fine è sempre solo Marco Lodoli che legge i suoi editoriali e si deprime da solo). Finalmente qualcuno che ricorda a tutti che stare a scuola è ganzo! C’è l’intervallo, il campo di calcetto, i ciliegi sono in fiore! È il posto dove la più stupida cosa che accade, accade per la prima volta! Voi che fingete di compiangerci, dareste un occhio della testa per assaggiare ancora un po’ di quel gusto della prima volta che a scuola è acqua corrente. Ecc. ecc.

Questa è la prima cosa che viene in mente. A voi.
La prima cosa che è venuta in mente a me è: che bravo, che sveglio, finalmente un ragazzo che ci dà la scossa, peccato che non sappia usare la punteggiatura.

Mi presento: il mio nome è Giuseppe Rosario Esposito. Sono un ragazzo napoletano, uno di quelli che ha la fortuna di poter andare a scuola; un ragazzo come tanti, uno di quelli che può sedersi di fronte ad un Pc per scrivere una lettera che probabilmente sarà ignorata poiché non fa abbastanza "Spettacolo". Non siamo forse nella società dello spettacolo ad ogni costo?

Ed allora Guardando la televisione, leggendo i quotidiani, non sento che parlare della "Non scuola". Non leggo altro che articoli interminabili sull'ennesimo video caricato su YouTube, che riprende chissà quale altro atto di vandalismo o di bullismo.

Si parla solo di questa "non scuola" che ormai sembra aver preso il sopravvento su tutto e tutti!

E la scuola? Quella vera, quella dei ragazzi che scrivono per far sentire la loro voce, quelli che in centinaia e centinaia parlano della "scuola che c'è" su di un forum on-line di cui nessuno ha scritto, quelli che si interessano dei reali problemi dei sistemi di istruzione, quelli che hanno deciso di creare un manifesto europeo degli studenti?
Che fine ha fatto quella scuola? Indubbiamente è più spettacolare far parlare di sé piuttosto che parlare di sé. Allora, forse, più che scrivere una lettera, dovrei filmarmi con uno di quei videofonini mentre riempio di botte qualche insegnante. Non lo so! Forse sono un folle, se penso che a qualcuno importerà questa lettera; sono un sognatore, quando ogni mattina cerco sui titoli dei giornali "la scuola che c'è", restando puntualmente deluso da quei caratteri cubitali.

Forse dovrei già sapere che nessuno risponderà a questa lettera. E forse mi dovrei abituare a non sapere cosa sono gli obbiettivi di Lisbona 2010, in fondo cosa importa! So cos'è YouTube. Ma scusate se non posso fare a meno di sognare.

Sei scusato per i sogni; un po' meno per le virgole.

Deformazione professionale, d’accordo; ma attenti. La mia professione è per l'appunto la scuola. Secondo voi è un errore mettersi a correggere i punti e le virgole a questo ragazzo?
Significa che la punteggiatura, per voi, non è un problema? Significa che è inutile insegnarla ai giovani? Che soprattutto, non ha senso correggere la punteggiatura nelle lettere che i giovani scrivono ai giornali, perché perderebbero in freschezza e in genuinità?

Niente di male, basta dirlo. E io smetterò di correggere la punteggiatura a scuola. Che roba da fare ce n'è comunque. Se decidiamo che è inutile, che è roba pallosa da adulti, che l’italiano si capisce anche senza, facciamone a meno. Resterà più tempo per i verbi irregolari e la Guerra Fredda (“si chiama così perché la combattevano d’inverno”).

Se avete studiato un po’ di Storia della Lingua, sapete che ogni lingua moderna nasce dagli errori di quella antica (se non l’avete studiata, fidatevi: ogni lingua moderna nasce dagli errori di quella antica). I primi documenti delle lingue neolatine sono i cataloghi degli errori più correnti stilati dai professori di grammatica tardo-antichi: monaci stressatissimi che non ne potevano più di correggere sempre le solite vocali e le solite desinenze. A un certo punto gli errori hanno vinto: è nato il volgare. Ogni lingua nasce volgare.

Se vogliamo sapere come sarà l’italiano di domani, non abbiamo che da leggere Giuseppe Esposito. Chiaro? Io non correggo Esposito perché non mi va come scrive. Può scrivere come gli pare, se la vede poi lui coi suoi insegnanti. Io lo correggo per capire che lingua parleranno domani. È una cosa che m’interessa: non so voi, ma io ho intenzione di farmi capire ancora per cinquant’anni almeno.

Prima sorpresa: più o meno è lo stesso italiano nostro. Esposito usa le stesse parole (poche) che usiamo noi. L’italiano non è che stia cambiando molto, dopotutto (non date retta ai lessicologi: quelli vogliono solo vendervi il dizionario nuovo con “blog” e “ipod”, come avete fatto a viver senza?) La nostra lingua si evolveva molto di più nei secoli scorsi, quando l’Italia era divisa in Stati diversi, i dialetti imperversavano, e radio e televisione non avevano ancora cristallizzato la lingua nazionale. I nostri nonni facevano fatica a parlare italiano; noi non dovremmo fare fatica a comunicare coi nipoti. Questa è una buona notizia, forse.

La principale differenza è - appunto - la punteggiatura. Esposito non la sa usare. O meglio: la usa in un modo molto diverso da quello di noi vegliardi. Virgole e punti sono jolly, più o meno intercambiabili. Il punto interrogativo non è obbligatorio. Il punto-a-capo è praticamente abolito. In fondo la cosa ha un senso: se vai a capo, che bisogno c’è di metter punto? L’economia degli SMS si fa sentire: inutile premere un tasto in più, è pleonastico. Ridondante. Propongo l’abolizione del punto-a-capo: se devi andare a capo, fallo e basta.

(L’alternativa è continuare a sbraitare come un ossesso: perché non mettete mai i punti a fine frase? Eh? Perché non mettete mai quei c***** di punti? Lo fate apposta? È una questione personale tra me e voi? Cosa vi costano?)

Giuseppe si è messo al PC, ma quella che gli è venuta sulle dita non è una lettera. È un discorso. La lingua orale sta vincendo sulla lingua scritta. Tra qualche anno il fratellino di Giuseppe non siederà più al PC: si inquadrerà con la webcam e farà un discorso alla nazione. Se già lo fa Di Pietro...

La punteggiatura si perde, come si è persa l’abilità a scrivere e leggere la musica. Una volta era indispensabile: non esistevano radio e giradischi, la musica girava sotto forma di spartiti da interpretare. Oggi siamo un popolo di esperti di musica, ma nessuno la legge più. Ormai è raro anche tra i musicisti di professione.
Può darsi che alla scrittura stia succedendo la stessa cosa: forse non è una vera arte, ma solo un medium. Può darsi che la tecnologia lo stia rendendo desueto, com’è successo al Codice Morse o ai dischi in vinile. Esposito non impara più la punteggiatura perché, sostanzialmente, non gli serve. E allora perché devo perdere tempo a insegnargliela?

Non ha più senso imparare a improvvisare un discorso davanti a una webcam, senza pause e balbettamenti? La sintassi di domani sarà orale o non sarà! La gente guarderà ai punti e virgola come noi guardiamo le cacchine di mosca su uno spartito: cosa avran voluto dire, mah.

E io mi arrendo. Ho passato gli anni migliori della mia vita a combattere contro le virgole, gli apostrofi, gli accenti; e ho perso.
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- anni zero

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Siamo usciti (vivi) dagli anni Ottanta

E siamo negli anni Zero. Facciamo finta di niente, ma la verità è sempre più dura. Quando ci sbatte sul muso.

Sabato, 4 febbraio, tema d'italiano in terza media. Tre tracce, aventi per argomento:

1) Rosso Malpelo (G. Verga)
2) Il caso delle vignette su Maometto (l'alunno può consultare i ritagli di quotidiani sul quaderno).
3) Sanremo.

Risultati
Il tema n. 1 è stato scelto da n. 11 studenti.
Il tema n. 2 è stato scelto da n. 13 studenti.
2 studenti erano assenti.

Il tema n. 3 non è stato scelto da nessuno.
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Elaborato di: Aureliana, anno I. (Ah, ecco, la Biondina).

"Buongiorno.
Fahrenheit 451 esce nel 1964. È la prima grande produzione internazionale di François Truffault, e il suo primo film a colori. Ma il potere contrattuale del giovane autore di Jules et Jim gli consente di gestire il soggetto – un romanzo di fantascienza di Ray Bradbury di dieci anni prima – con una certa libertà. Così, in luogo del regime totalitario e spersonalizzante prefigurato da Bradbury, il libro diventa un dichiarato pretesto per esibire la grande passione del regista: la lettura".

(Ha fatto una ricerca. Ha evidentem accesso alla Banda Larga e può fare tutte le ricerche che vuole. Potrebbe anche mettersi a scaricare film più interessanti di qlli che proietto io).

"Sennonché per una serie di motivi, forse contingenti – la difficoltà di maneggiare dialoghi e attori in lingua inglese, di cimentarsi con un genere particolare come la fantascienza – il film rimane irrisolto. Montag, il protagonista che si pretenderebbe risvegliato alla 'vera vita' dal contatto coi libri, non cessa per un istante di apparire un automa. La conversione da pompiere a lettore è meccanica, e i suoi compagni lettori non sono meno meccanici di lui. Meccanico è il modo in cui arrivano a uccidere sé stessi e gli altri per salvare un volume o una biblioteca. Come abbiamo avuto la possibilità di vedere durante il dibattito seguito alla proiezione, lo spettatore di oggi non riesce a trovare nessun moto di simpatia per qsti personaggi. Gli "uomini-libri" dell'ultima scena del film vivono di convenzioni meccaniche né più né meno che i teledipendenti della città. Tutto qsto è ben visualizzato da quel che io definisco un lapsus cinematografico: l'attrice Julie Christie interpreta sia la maestrina lettrice ribelle che la casalinga teledipedente.

(Ah, sì, ma mi pare che fu per motivi di budget…)

"Sappiamo che qsta scelta fu dettata da motivi di budget: l'attrice aveva appena vinto l'Oscar e doveva risultare protagonista del film, anche se nessun ruolo femminile era abbastanza importante – così le furono affidati entrambi i ruoli. Ma non basta cambiare un acconciatura per ottenere un personaggio diverso. Dai due lati della barricata, la Christie interpreta lo stesso ruolo: una donna inquieta che cerca conforto in supporti culturali ormai inadeguati. E viene da chiedersi perché l'uomo-automa, Montag, debba per forza sceglierla nella versione 'maestrina' piuttosto che in qlla 'casalinga'.

In qsto il film di fantascienza svela i legami con le convenzioni del presente in cui è stato girato. Ed è come scoprire la quinta di un fondale. Non si tenta nemmeno di dimostrare l'idea che la lettura sia in sé un'azione più positiva di qualsiasi altro atto di ricezione culturale, come assistere a una proiezione o ascoltare un file audio o qnt'altro. Qsta idea non ha bisogno di essere dimostrata perché in quel periodo storico è condivisa universalm, fa parte della natura: il cielo è azzurro, i prati verdi, i libri fanno bene, i videoschermi fanno male. Ed è per me fonte di continua sorpresa che questa idea sia condivisa con tanta convinzione da uno dei grandi pionieri del linguaggio audiovisivo, François Truffault.

Per qsto dico che il vertice del film è costituito dai formidabili titoli di testa, in cui le didascalie vengono abolite e sostituite da una voce narrante. Per un attimo il regista si accorge che l'abolizione e la ghettizzazione della letteratura non dipendono dai pompieri neri e cattivi, ma da lui, e si spinge sull'abisso di una comunicazione totalmente non scritta: «guardate», sembra dire allo spettatore: «qsto è qllo che potrei fare coi mezzi a mia disposizione, se solo volessi». Su uno sfondo di tetti e antenne televisive, il regista minaccia e blandisce lo spettatore: spegni e mettiti a leggere, finché sei in tempo. L'ambiguità del messaggio è patente".

(È cosa? Rewind).

"…è patente".


Ma quant'è intelligente qsta

Avrà copiato, con la Banda Larga si può fare

Ha copiato molto bene, però, per la sua età

Neanche un accenno all'incidente del suo amico

Qlche ingenuità, certo

Be' ci mancherebbe altro

Il messaggio è patente

Qsta cosa dei titoli di testa, interessante

Mi piacerebbe riparlane con lei per

No.

Neanche un accenno all'incidente del… come si chiamava?

È ricca. È facile per i ricchi essere intelligenti.

Teresino (ih ih ih)

Leggi, guardi, ascolti, hai un sacco di stimoli

Il messaggio è patente

Non è un bel lavoro

Che fine avrà fatto Teresino?

Ricca, intelligente, defargista

Mi piacerebbe riparlarne per…

Stanne fuori

Stai diventando paranoico, vedi defargisti dappertutto

Sei ridicolo

È senz'altro l'allieva più brillante ed è

Alla tua età

Carina

Ma certo, figurati, adesso ci mettiamo a flirtare con le studentesse, infatti qui non c'è un cazzo da fare, abbiamo due mogli tre lavori e dobbiamo anche inseguire un supereroe in pigiama a righe che si aggira per la città, così, guarda, al di là di ogni valutazione morale che io non sono solito fare e lo sai, di tutto puoi accusarmi fuorché di essere un bacchettone, però guarda, mi sento di dirtelo:

F'nql

Ecco.

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3 compiti di punizione

Caro Leonardo,
io non ho niente contro i romanzi, e ne scriverei volentieri, come tutti, se solo avessi il tempo: quanto alla mia vita, decisam un romanzo non è.
Se fosse un romanzo, martedì scorso mi sarei messo immediatam alla ricerca di Taddei, e chissà come e dove l'avrei trovato, perché nei romanzi bene o male chi cerca trova, come chi ha una pistola primo o poi spara. Ma la mia vita romanzo non è, e martedì scorso avevo fretta di svignarmela dal pronto soccorso anche perché avevo un altro impegno. Capirai, dopo dieci giorni di influenza le pendenze si accumulano. Per esempio, dovevo passare in facoltà a scaricare i compiti di penitenza su Fahrenheit 451 che avevo dato ai miei studenti. Avevo rinunciato a scaricarli a casa durante la convalescenza: troppi e troppo pesanti.
Già qsto mi preoccupava. Dare compiti a casa non è prassi usuale: se l'avevo fatto, era per scoraggiare gli studenti a ripresentarsi a lezione. Il mio è un piccolo corso non obbligatorio, che non deve dare fastidio a nessuno. Non so ancora se me lo pagheranno, del resto, è un finanziam bloccato del MinCul. L'unico guadagno sicuro è la possibilità di accedere ai terminali della facoltà, che sono un po' più potenti.

Elaborato di: Faustino, anno II.

"Buongiorno professore, questo è il mio elaborato, nel quale, ehm, spiego la storia che lei ci ha fatto vedere sullo schermo grande.
La storia, allora, si svolge nell'Impero Bizantino, in una città dove i pompieri bruciano i libri, perché sono troppi e la gente non sa dove metterli. Il protagonista è il capo dei pompieri che spiega che i libri sono inutili e rendono triste la gente. Anche suo figlio fa il pompiere, ma non va d'accordo con sua moglie, così si mette a leggere libri di nascosto. Il padre se ne accorge e gli ordina di bruciare i libri, ma lui si ribella e lo brucia, con un lanciafiamme bizantino, poi fugge nei boschi dove trova altre persone sciroccate come lui, che non bevono più né mangiano, né… né… ih, ih"
(Imbecille).
"…ma restano nei boschi a imparare a memoria i libri e vogliono trasformarsi essistessi in libri, perché…, perché è così. Qsta è la prima parte dell'elaborato in cui facevo il riassunto della storia. La seconda parte contiene la mia riflessione che lei ha chiesto.
La mia riflessione è che i bizantini sono strani. Hanno un sacco di regole che non capisco, come questa dei libri. Li proibiscono, e poi li nascondono da tutte le parti. Cioè, non sono coerenti. Non ho mai visto tanti libri come in qsta storia dove in teoria sarebbero proibiti. È meglio da noi, io trovo, dove non è proibito niente, e infatti ci sono anche meno libri".

Il mio giudizio su Faustino.
Per la sua generazione, non è neanche l'ultimo dei coglioni. Non sa cos'è un film: per lui si tratta di una "storia su uno schermo grande". Non sa cos'è la finzione: non ha capito che la storia è ambientata in un futuro ipotetico: ha sentito dire che la produzione è europea, e ha attribuito le usanze, gli abiti e le scenografie strane ai "bizantini". Non sa distinguere tra fiction e documentario, per lui è lo stesso genere. Peraltro, ha seguito tutto il film e non si è assopito: la trama che ha ricostruito è assolutam coerente.
Naturalm non ha nessun trasporto emotivo per i libri: una cosa che Truffault e Bradbury non potevano immaginare. Quando costruiamo un futuro, non ci accorgiamo di appenderci sempre a qlcosa del nostro presente. Gli autori del film si sono ingegnati a costruire una figura di 'padre' proprio perché immaginavano che la ribellione contro i padri sarebbe stata sempre attuale. Sessant'anni dopo Faustino riconosce nel film il 'padre', e istintivam si fida di lui. Invece non riesce a capire la ribellione del 'figlio'. Una buona notizia per il Teopop – almeno, per il Teopop di adesso.
Ma ripeto, non è un coglione: ha capito il senso del film. C'è un solo modo per rendere desiderabile qlcosa, ed è proibirla. Per mostrare il suo amore per i libri, Truffault ha dovuto bruciarli. Qsto, per Faustino, "non è coerente". E infatti "è meglio da noi": nulla di proibito, nulla di desiderabile.


Elaborato di: Matilde, anno III… (ah, sì, la cozza che sta sempre in prima fila).

"Buongiorno prof. Colgo l'occasione per fare i miei complim per il corso di qst'anno, per la scelta del lungometraggio… l'ho trovato avvincente e interessante".
(Il film è una pizza, peraltro l'unica disponibile al videonoleggio di facoltà che avesse una minima attinenza col mio corso)
"Ho apprezzato molto il montaggio, che mi pare ispirato al migliore Hitchcock, con alcune scelte rivoluzionarie – l'abolizione dei titoli di testa, ad esempio, la rinuncia alla forma scritta, molto in anticipo sugli anni, bla bla bla bleeeeeeee…".

(Già, Matilde, hai ragione. A quel tempo la gente sistemava scritte dappertutto, anche nei titoli dei film. Poteva sembrare scomodo, ma in realtà permetteva allo spettatore di non leggere le cose inutili. Per dire, ai vecchi tempi tu mi avresti scritto un paio di fogli protocollo, e io li avrei sfogliati senza leggerli, perché tanto si capisce al volo che sei una cozza che si applica. Ora invece tu mi parli davanti a un lettore, e io per risparmiare tempo sono costretto a sentirti squittire in modalità FFWD)

"…eee in definitiva credo che il film sia un inno alla letteratura del passato, ai valori della narrazione, che rischia di scomparire in un mondo meccanizzato e dominato da videoschermi onnipresenti e invasivi".

Il mio giudizio su Matilde: si applica, cerca di farsi notare. Cultura di base buona, filtra i messaggi standard. Ed è una cozza.

Elaborato di: Gastone, anno I. (Non mi sembra di averlo visto alla proiezione).

"Buongiorno. Il film parla di pompieri. Qsti pompieri…hanno sempre un gran daffare col loro lavoro. Alla fine uno è sempre stanco, non ne può più e va a vivere nei boschi. A me il film ha fatto riflettere sul fatto che il lavoro dei pompieri è molto duro. Bisogna essere fieri dei pompieri, uno non ci pensa mai, a quanti incendi spengono. Io ho uno zio nei pompieri e sono fiero di lui".

(Ah, ok, era uno di quei due in fondo che hanno pomiciato tutto il tempo).
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Il regime vintage

Caro Leonardo,
Tempo di merda (neve). E poi dicono: la terra si surriscalda. E più si surriscalda più a San Petronio nevica in gennaio. Una gran presa in giro. Io odio la neve, per strada mi si bagnano i piedi e non mi si asciugano più. E l'obbligo di staccare il frigo – che anche se non lo rispetti, dopo un po' la luce si stacca ugualm, quindi… le risse coi vicini di casa perché dal loro davanzale è sparito un pezzo di carne. Lo sanno tutti che è il cane del portiere. Adora succhiare le braciole congelate. O le seppellisce in qualche aiuola e le recupera frolle in primavera. I cani di San Petronio sono i più astuti del mondo, erediteranno la città.
Sono molto teso per via che stasera ho il mio primo colloquio con il Cap (scongelano anche lui). Sempre ammesso che smetta di nevicare e un filobus riesca a portarmi in Ospedale. A piedi rischio di prendermi un accidente. Beh, magari Damaso ha un'aspirina. In un ospedale dovrebbe averne. È bello avere amici dottori (come Assunta ben sa).

L'altro giorno in facoltà è successo un incidente curioso. Come promesso, ho visto Fahrenheit 451 coi miei studenti. Dev'essersi sparsa la voce che si proiettava roba bizantina in facoltà, così c'era quasi una dozzina di studenti, un successo. "Dopo una mezz'ora usciranno tutti", pensavo. E invece no, si sono bevuti tutto il noiosissimo film che è un piacere. La nouvelle vague torna di moda. Pazzesco. Vent'anni fa i film così te li tiravano dietro. Adesso più sono lenti e noiosi meglio è. L'anno prossimo provo con un muto in bianco e nero. La Corrazzata Potiemkin, perché no. Magari si commuovono e piangono. Ma forse è un film scoraggiato dal Teopop (il Teopop non proibisce, il Teopop scoraggia).

Per quasi tutto il film la biondina ha tenuto l'ipodo puntato sul video. Ha ripreso il film con quell'affare. Oltre a essere probabilmente proibito fortem scoraggiato, è anche dispendiosissimo. Continuo a pensare che un informatore userebbe mezzi più discreti.
Finito il film c'è pure stata un po' di discussione. Io non ero molto ispirato, volevo sparare il solito paio di palle e andarmene. Il trito argomento: perché i film fantascientifici del passato trattavano così spesso di regimi totalitari?

"C'è un motivo politico: la paura per il regime bolscevico, che in quel periodo controllava metà del Continente. Il ricordo ormai cristallizzato del nazismo. Ma ci sono anche ragioni più banali e contingenti. Per esempio, le scenografie.
Un film ambientato in un futuro, come questo, ha bisogno di scenografie avveniristiche molto costose. In questo caso la produzione se la cava con poco, come vedete. Una monorotaia nella campagna, un quartiere all'avanguardia ripreso dall'alto, qualche elettrodomestico 'strano', e il gioco è fatto".
"Ma prof, i telefoni…"
"Bravo, ma non chiamarmi prof. I telefoni, come hai notato, sono pezzi d'antiquariato. È un trucco molto semplice: invece di perdere tempo a immaginare il design di un telefono del futuro, si ottiene lo stesso effetto di spiazzamento temporale con un telefono del passato, che si immagina tornato di moda. Con un notevole risparmio di tempo, denaro e fantasia, perché l'oggetto del passato non va immaginato: basta recuperarlo da un trovarobe.
Tutto il film è giocato su questa specie di effetto vintage, anche se a distanza di 60 anni è difficile rendersene conto. Prendete l'autocisterna dei pompieri: le linee della carrozzeria rimandano alla prima metà del Novecento. Così le tute dei pompieri, che ricordano vagam le uniformi nazifasciste, ma anche le tute da operai. Tutto il futuro del film è ricostruito con scarti del passato. Possiamo interpretare questa scelta come un'ossessione per i regimi totalitari degli anni '30-'50, ma anche come una semplice scelta economica. Il passato è molto più facile da rendere, specie se è un passato vicino a noi e facilmente riconoscibile. Per spiegare allo spettatore che i pompieri sono 'i cattivi', non c'è bisogno di molte parole. Basta vestirli di nero.
Questo espediente economico finisce però per segnare il nostro modo di vedere il futuro. Negli anni '50 e '60 molti film di fantascienza ci mostrano il futuro come un incubo totalitario. Per motivi politici, ma anche perché l'incubo totalitario è l'opzione cinematografica più semplice ed economica. Per evitare di dovermi inventare scenografie fantasiose (e costose), io invento un regime totalitario che non solo è privo di qualsiasi fantasia, ma che la reprime: come i pompieri di questo film, che bruciano i libri. Siccome poi i regimi totalitari sono spesso in recessione economica, non ho nessuna necessità di inventare troppi accessori futuribili. Ci saranno ancora vecchie case in stile normanno, la gente si sposterà in treni non molto simili dai nostri. Addirittura, le scenette familiari non saranno molto diverse dalle nostre. In questo senso, dietro lo schermo del futuro, il film ruota su un dramma che più "anni '50" non si può: il marito rincasa stanco e vorrebbe mettersi a leggere in santa pace, ma la moglie casalinga e alienata insiste per guardare qualche stupido programma in tv.

A questo punto la biondina alza la mano.

"Sì?"
"Mi scusi, prof…"
"Niente prof".
"Non importa. Se ho capito bene lei sta dicendo che gli autori del film, come si chiamano…"
"François Truffault e Ray Bradbury".
"Quelli. Lei li sta accusando di essere i dittatori del loro mondo del futuro. Il loro piccolo mondo del futuro è piatto noioso e repressivo perché loro non avevano i mezzi e la fantasia per immaginarne uno meno piatto noioso e repressivo".
"Ma no, no, non sto dicendo questo".
"A me sembrava così".
"Ma no, è che… è che… È chiaro che, una volta immaginato questo mondo piatto noioso e repressivo, l'avventura dell'eroe del film consiste proprio nella rivolta, nello scardinamento del regime, nella conquista della libertà".
"Ecco, questa è un'altra cosa che non ho capito. Chi è l'eroe del film?"
"Ma… è Montag, il pompiere ribelle, no? Mi sembra chiaro".

In quel momento mi accorgo di avere addosso almeno 24 occhi perplessi. La biondina sta per riprendere, ma il quattrocchi davanti a lei la interrompe.
"Professore, io non sono tanto d'accordo. Quel pompiere uccide un uomo".
"Un uomo?"
"Il suo capo".
"Ah già, certo, sì".
"Lo uccide con lanciafiamme! Davanti a tutti! Nessun altro nel film compie un'azione talm crudele".
E la biondina, dietro: "È un uomo che si è fidato ciecam di lui. È quasi un padre per lui".
"E Montag lo uccide. A sangue freddo! Preferisce bruciarlo vivo piuttosto che dare alle fiamme qualche libro".
Cerco di riprendere la parola. "Ma non capite. I libri simboleggiano la fantasia, la capacità di scambiare le nostre vite con quelle dei nostri simili. Per Montag dietro ogni libro c'è un uomo".
Mi interrompe la biondina. "No, professore".
"Come sarebbe a dire no?"
"È esattam l'inverso. Per lui dietro ogni uomo c'è un libro. Gli uomini non gli interessano. Sua moglie non gli interessa. La fa piangere, fa piangere le sue amiche. Suo padre non gli interessa: lo brucia vivo. Lo ha detto lei: la sua ansia di libertà è quella del padre di famiglia che torna a casa e vuole soltanto leggere in santa pace. Immergersi nei libri. Dimenticare i suoi prossimi".
"È un maledetto feticista. Necrofilo, anche. Gli uomini gli interessano purché morti da un pezzo, e riconvertiti in carta".
"Su, ragazzi, calma adesso".
"Alla fine va a vivere nei boschi, in mezzo a un gruppo di gente alienata come lui, che non ha più veri rapporti umani".
"Ma non capite. Quelle sono le persone libere".
"Non sono d'accordo. Quelli sono ancora più alienati degli abitanti della città".
"Non comunicano più. Citano. Il citazionismo è la fine della comunicazione".
"Il citazionismo non è un bel lavoro".

A questo punto, siccome sono vecchio ma non ancora del tutto scemo, capisco qual è il problema.
Il problema è che c'è un defargista in sala. Probabilm è il quattrocchi. Si è fatto sfuggire un defargismo tipico. "Il citazionismo non è un bel lavoro". Non credo che Defarge lo abbia detto, ma avrebbe benissimo potuto.
E forse c'è di più. Forse anche la biondina al suo fianco è una defargista. Forse, anzi, la vera defargista è lei, e il compagno sta defargizzando solo per darsi un tono. Tipico dell'età.
Ma questo significa anche che, essendo di gran lunga la biondina la persona più avvenente del corso, tutta la mia classe diventerà in tempi brevi un covo di defargisti scatenati. E io faccio in tempo a tornare in Rieducazione entro la fine del semestre. La cosa più saggia sarebbe allontanare la biondina, subito.

Apro il registro alla pagina delle foto segnaletiche. Il Quattrocchi si chiama… Teresino. Nato decisam nel giorno e nell'anno sbagliato.
"Teresino-del-Bambin-Gesù".
"Sono io, sì".
I compagni, è ovvio, ridacchiano.
"Teresino, non mi è piaciuto il tuo atteggiamento durante la lezione".
"Ma sono solo intervenuto con…"
"Sei intervenuto a sproposito e con una foga che non si addice al tempo e al luogo. Per questo motivo passerai la prossima lezione nell'aula 68".
Teresino sbianca. Anche il resto della classe ammutolisce. Si vede che non ho fama di duro. La biondina guarda in basso. È meglio battere sul ferro, ora.
"La settimana prossima mi consegnerete un elaborato. Un riassunto del film e le vostre opinioni in merito. Soprattutto le vostre opinioni saranno esaminate con estrema attenzione. Sono stato abbastanza chiaro?"
Altroché se lo sono stato. Defluiscono rapidam; molti non torneranno più. Ecco come ti stronco l'idra a nove teste del defargismo. Per ultimi escono Teresino e la biondina. Si bisbigliano qualcosa.
Lei mi fa un gestaccio.
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- 2025

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L'ora di vertigine

[Questa è la lezione con cui ho inaugurato il nuovo seminario di narrativa ucronica, davanti a sei studenti che probabilm avevano sbagliato corridoio. Un ciccio in ultima fila, con tutta l'aria di un informatore; due tizi anonimi; tre ragazze abbastanza carine, due brunette e una bionda coi tacchi. I tacchi non sono molto in linea col Teopop, specialm se ostentati in prima fila. Forse si tratta di uno scambio culturale. Oppure una studentessa della classe alta: pare siano sempre più sfacciate.
Io non sono molto concentrato. Voglio fare in fretta, stasera ho un appuntamento con l'amante della mia seconda moglie. La prima cosa che dovrò chiedergli è un anticipo per un lavoro che ancora non so che sia. A questi racconto le solite due palle sulla vertigine, e via].

"Sia lodato Gesù Cristo, inauguriamo questo seminario di narrativa ucronica. Io mi chiamo Immacolato e la mia qualifica è di docente aggiunto, quindi vi esorto a non chiamarmi professore, qualche mio collega potrebbe prendersela a male e mandarvi... nell'aula 68, ah-ah".

[Non ride mai nessuno. Ma intanto ho fatto caso ai due registratori che sono posati sulla mia cattedra. Uno è un normalissimo walkman sony di 25 anni fa, tenuto assieme col nastro adesivo: complimenti a chi proverà a riascoltarmi con quell'affare.
L'altro è, se non mi sbaglio, un ipodo, di quelli che registrano su chip. Devo averne visti un paio in tutta la mia vita. Perché mai uno che possiede un affare del genere dovrebbe perdere tempo ad ascoltare le mie lezioni?]

"Chiamatemi docente. Il corso di questo semestre è dedicato alle proiezioni del futuro, un argomento che volevo trattare da un po' [un argomento che forse non vi farà scappare dopo tre lezioni]. Voi sapete già come la nostra concezione del tempo storico sia radicalm cambiata nel corso degli ultimi anni. Fino a qualche tempo fa amavamo raffigurare il nostro cammino nel tempo come una marcia fiduciosa verso il futuro, in cui il passato veniva lasciato alle spalle, senza essere mai veramente perduto. In sostanza, l'uomo era un conquistatore, che progressivam annette a sé nuove porzioni di futuro.
Questa concezione trionfale è stata messa in crisi, negli ultimi anni, da una serie di studi, alcuni portati coraggiosam avanti da gloriosi pionieri del Teopop".

[Una volta si usava far l'inchino, a questo punto. La facoltà è scaduta di molto da quando sono state reintrodotte le sedie].

"Non mi dilungo su questi argomenti che dovreste già conoscere bene. Per farla breve, ci siamo resi conto che il passato…

[S'ode un bisbiglio collettivo, gli ultimi resti di una lunga coazione a ripetere:
"…è perduto".]

…per sempre. Quello che noi consideriamo "ricordi" sono, nella maggior parte dei casi, interazioni della nostra fantasia con alcuni oggetti grezzi, come foto, vecchi documenti eccetera, gusti, odori, che suscitano quella particolare sensazione a cui è stato dato il nome scientifico di… qualcuno lo rammenta? Un nome francese…"

"Maddalena, Prof?"
"Che in francese si dice…"
"Non lo so prof".

"Madeleine. E io non sono un Prof. Se la nostra presa sugli eventi del passato si è in gran parte rivelata illusoria, il futuro continua a essere in gran parte imponderabile. Abbiamo smesso di vedere nel tempo una marcia trionfale, una guerra di conquista: oggi più facilm immaginiamo il nostro percorso nel tempo come una caduta libera. È una visione antica, in realtà, che secondo alcuni risalirebbe ai Greci.
Noi non marciamo, dunque, bensì precipitiamo nel futuro come da una rupe. Precipitiamo a testa in su: intorno a noi scorrono immagini dei luoghi dove siamo appena stati, del nostro cosiddetto passato. Paradossalm, più le immagini sono vicine a noi, più ci sembrano mosse e indecifrabili. Molto più nitido appare il cielo sopra di noi, la cima da cui siamo caduti, il cosiddetto passato remoto. Abbiamo anche calcolato dopo quanto tempo un evento passato raggiunge questo orizzonte nitido in primo piano: il Muro di Cristallo. Qualcuno si ricorda?"

[Il ciccio in fondo sta russando]

"Vent'anni?"
"E quarantasette giorni, signorina, esatto.
Quanto al futuro – anche il più immediato – esso continua a essere un assoluto mistero. Possiamo fare congetture, ma esse sono miseram fallaci. La più diffusa è riassunta nella frase "Fin qui tutto bene". Che significa: "dal fatto che finora non c'è stato nessun impatto, io deduco che ancora per molto non ce ne sarà". Congettura che ha ben poco di logico, come vedete".

[Dalle facce direi che non vedono un bel nulla, ma andiamo avanti].

"Per la verità, accanto ai cantori del "fin qui tutto bene", vi sono sempre stati intellettuali che hanno cercato di capovolgersi e fissare il futuro, con le tecniche concesse dalla scienza e dalla fantasia dei loro tempi. Le immagini che ci hanno restituito, le loro pre-visioni, non sono naturalm meno fallaci dei nostri ricordi. Ma è interessante la sensazione che ci fanno provare. Non più il caldo conforto di una madeleine, bensì, quel brivido particolare che forse già conoscete…"

[Macché, 'sti qua manco il loro indirizzo, conoscono].

"…la vertigine. Se le immagini che ci arrivano addosso possono essere del tutto fuori fuoco e illusorie, quel brivido è reale, ed è il senso ultimo della nostra indagine. Noi non vogliamo veram sapere su cosa sbatteremo tra dieci, venti, cento anni: peraltro, non c'è nessun modo di saperlo davvero. Ma vogliamo sapere che stiamo cadendo, in questo preciso momento. Anche il futuro, come il passato, non esiste. Quel che esiste è la nostra angoscia per esso, la nostra vertigine. Ed è la vertigine che studieremo assieme nel corso di questo semestre".

[Ora stanno pensando che fanno ancora in tempo a disiscriversi e provare con Tecniche Domestiche… È ora di indorare la pillola].

"Stavolta ho pensato di privilegiare la narrativa audiovisiva, così sono riuscito a corrompere il custode e a scaricare alcuni lungometraggi del secolo scorso. Cose che Supernet non ha mai messo in onda, direi…"

[Il ciccio in ultima fila si è svegliato di botto. I filmini! Il prof ci fa vedere i filmini!]

"La prossima settimana cominciamo con un lungometraggio bizantino di metà Novecento. Per oggi direi che è tutto, sia lodato Gesucrì".
"Sempre sia".
"Ah, stavo per dimenticarmi che giorno è oggi. Ricordatevi che siete cenere".
"... e cenere torneremo, Amen".

[Vorrei scappare, invece aspetto. Magari qualcuno ha delle domande… nessuno. In realtà volevo solo vedere chi passa a prelevare l'ipodo. La biondina, naturalm.
Mi ha sorriso].
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“Gavioli”
“Presente”
“Hassan”
“Presente”
“Insomma”
“…”

Le difficoltà del giovane Insomma

Col tempo cominci a fidarti del linguaggio. Non ti accorgi più di quanto sia astratto, malfunzionante, in genere poco performativo. Ti muovi tra adulti che bene o male comunicano. Tutto regolare, a parole. Ma il destino è in agguato. Il tuo destino ha un nome. E un cognome. Insomma Pierluigi, nato a Barletta il 26/26/92.

“Insomma! Dico a te!”
“Cosa c’è, prof?”
“Sei presente oppure no?”
“…”
Quando mi guarda con quegli occhi azzurri, profondi, vacui, io so che è tutto vano. Insomma non è stupido. Ma non sa di cosa stiamo parlando.

“Sei indeciso? Non sei sicuro di esserci? Vuoi fare un salto a casa a controllare se ti sei dimenticato là?” (Risate di convenienza)
“Mica posso andare a casa, prof”.
“E perché?”
“Perché…”
Perché sei qui!”
“…”
“Quindi sei presente, o no? Ti segno presente? Vuoi pensarci ancora su? Insomma!”
“…”
Quegli occhi azzurri, profondi, vacui.

Insomma non è stupido. In un qualche modo sappiamo tutti che è intelligente. Ma in mezzo c’è il linguaggio. Questo diaframma tra la sua intelligenza e quella degli altri. È occluso.
O forse è una sorda rivolta contro le istituzioni. Insomma sa di essere qui. Ma non risponde. Neanche sotto tortura.
La tortura consiste nel cercare di spiegargli i problemi di geometria solida un pezzo alla volta.

“Il volume si trova moltiplicando l’area di un lato per l’altezza. Insomma, io direi che è chiaro”.
“…”
“Ora, sta molto attento…”

(Insomma non è sfrontato. Anzi ha buone maniere, e in generale si mostra malleabile. Se gli chiedi di stare attento, lui si concentrerà e ti darà la migliore faccia attenta che tu abbia visto mai).

“…se l’area abbiamo detto che è 3 e l’altezza è 4, quanto sarà il volume?”
“…”
“Ti ricordi? Abbiamo detto (dito sulla regola) che il volume si calcola moltiplicando questo per quello. Questo (dito sull’area) è 3. Questo (dito sull’altezza) è 4. Quindi il volume sarà…”
“…”
Ho usato le dita. Errore. Si è distratto. Ha guardato le dita del prof sul disegno. Non ha guardato il disegno. Dita, disegno, linguaggio. Non funziona. Non spiega niente, è solo un’inutile distrazione. Musica di fondo. Diaframma occluso.

Con l’algebra va meglio, grazie a qualche accorgimento. Il più universalmente noto è il denaro. Un linguaggio che funziona sempre. (Perché?)

“E ti ritrovi con dodici fratto due. Ora devi semplificare”.
“…”
“Insomma, Pierluigi”.
“Ma prof!”
“Insomma, cosa vuol dire fratto due? Che devi dividere per due, no? E quindi…”
“…”
(Sospiro) “Insomma, hai dodici euro. Li devi fare a mezzo”.
“Con chi?”
“Con me. Quanti me ne dai?”
Mi guarda male, ho voglia di fregarlo? Lo sanno tutti che la metà di dodici euro è…
“Sei euro, prof”.
“ooooh. E Insomma, ci voleva tanto?”

Perché un’operazione è più comprensibile se dietro alle cifre metti il segno di una valuta? Fatto attestato a tutte le latitudini: dollari, yen, rubli, qualsiasi pezzo di carta emesso da qualche banca centrale è più comprensibile di un’unità astratta che si legge su un libro di matematica. Ma perché? Forse che un dollaro è meno astratto di un numero? Mica è un dollaro vero. È immaginario. Ma allora Insomma ha immaginazione. Allora è intelligente. Ma ha bisogno di parole sue. Unità di misura sue. Dai quattordici anni in poi, per un certo periodo, esisterà una sola unità di misura su cui valga la pena lavorare d’immaginazione:

“…E hai trovato ‘due mezzi’. Cosa vuol dire?”
“…”
“Cosa sono ‘Due mezzi’? Non c’è un modo migliore per scriverlo? Hai una metà di qualcosa. Poi anche l’altra metà. Due metà. Due metà insieme fanno un…”
“…”
“(Sospiro) Insomma, hai un motorino”.
“Eh, prof, magari”.
“Diciamo che ce l’hai proprio. Adesso te lo taglio a metà”.
“No!”.
“Però ti lascio entrambe le metà. Quanti motorini hai?”
“Uno”.
“Ecco. ‘Due mezzi’ sono ‘uno’, Insomma! Hai capito o no?”
“Ma prof, dopo posso rimontarlo?”

L’importanza dell’immaginazione. Il linguaggio non funzionerebbe non perché è astratto (anche la parola “dollaro” o “motorino” è astratta), ma perché non è abbastanza “evocante”. In inglese direi: sexed up.
Allora è così? Il ruolo dell’insegnante è sex-uppare il linguaggio? Aveva ragione quella classe che si lamentava perché non facevo abbastanza battute nelle lezioni di Storia? “Oggi studiamo la peste nera wow! Fichissimo!”
A parte che non è facile. A furia di inventarmi storie di denaro e motorini, finisco per pescare nel torbido dell’inconscio collettivo. Come si gestisce l’immaginario dei quattordicenni? La tv insegna: sesso e violenza, ma il sesso soltanto dopocena. Io lavoro al mattino: vai di violenza.

“…e adesso devi risolvere: (– 26 – 6) =”
“Ventisei meno sei…”
“Nononono. C’è un meno davanti. Quindi si legge: Meno Ventisei Meno Sei. Come si risolve?”
“…”
“Non guardarmi così, Insomma. Lo sai. Te lo abbiamo spiegato varievolte. E ti ho appena mostrato come si fa. Quindi tu adesso lo fai. Senti… è come un… un… un frigorifero”.
“Un frigorifero?” (Sbuffa: il frigorifero, in sé, non è sexy proprio per niente).
“Sì, ma lo usi per torturare una persona. Allora: all’inizio il frigo è a meno ventisei gradi. Ci ficchi dentro questa persona..."
"Sì".
"Secondo te soffre?”
Nel vacuo dei suoi occhi, un bagliore luciferino. E mi ricordo improvvisamente di una cosa. È proprio lui, Insomma Pierluigi, l’appassionato della Storia del Novecento. A 14 anni c’è un solo motivo per appassionarsi delle lezioni di Storia sul Novecento: sete di sangue.

(Flashback
Due settimane fa, si ripassava la Repubblica di Weimar:
“E poi, come dice il vostro libro, c’era anche la questione del debito di guerra! I tedeschi avevano perso la guerra e dovevano pagare un debito spaventoso! Era una cosa molto umiliante. Per questo si esasperarono…”
“… e poi votarono per Hitler”.
“Beh, diciamo che è uno dei motivi. Si sentivano umiliati. Fu un grave errore. Non bisogna mai umiliare i propri nemici, ridurli alla disperazione”
“Meglio ucciderli”.
“Ecco, sì. Cioè, No! Pierluigi, ti rendi conto di quel che hai detto?”
Lo stesso lampo negli occhi. Ecco quando glielo avevo visto).

“Insomma, secondo te a Meno Ventisei soffre?”
“Un po’…”
“Mica tanto, eh? Allora togliamo altri sei gradi. Meno Ventisei… Meno Sei. A quanti gradi siamo, adesso?”

Funziona. Non ha più uno sguardo vuoto. Si sentono le meningi cigolare. Sta calcolando. Abbiamo passato il diaframma! Vittoria!

(E che importa se, oltre a calcolare, sta immaginando il suo acerrimo nemico Carbone Nicola in una cella frigorifera a –26°)

“…Meno Venti”.
“Ma no, scusa! Così diventa meno freddo, e lui sta meglio! Invece tu vuoi farlo soffrire di più, no? Quindi devi togliere altri gradi…”
“Aaaaaah?”
Un piccolo istante. Ormai ce l’ha fatta.
“Meno Trentadue, prof”.
“Vedi che ci arrivi, Insomma?”
“Eh, prof…”
“Io lo so che sei intelligente. Te lo dico sempre”

(Sei anche un po’ sadico, ma a 14 non è grave).

“Prof, tornando a noi…”
“Sì”.
“Secondo lei, a Meno Trentadue, muore?”
“Sì. No. Chiedi alla prof di scienze”.
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Il Cattivo Supplente
(sì, è sempre Lui)

E io ti dico, Spoon River,
e dico a te, Repubblica:
guardatevi dell’uomo che sale al potere
e una volta portava una sola bretella.


Edgard Lee Masters, John Hancock Otis

A proposito di Mussolini, ho scoperto un’altra analogia con Saddam Hussein. La prima, famosa, era il pallino per le bonifiche: pare che quando lo abbiano tirato fuori dalla buca, una delle prime cose che abbia detto sia “come vi permettete di trattarmi così, io ho fatto le bonifiche, ecc.” (questo è Saddam, non Mussolini).

L’altra, notevole, è il bullismo. Un anno fa scoprivamo come Saddam Hussein fosse il terrore della scuola elementare di Tikrit; non da meno il giovane Benito. Quando dopo la Marcia su Roma i giornalisti cominciarono a salire a Predappio in cerca di materiale per i loro instant book, raccolsero testimonianze abbastanza eloquenti: “Un dscuréva; e pciéva!”, dicevano di lui i suoi coetanei (Per chi non fosse pratico: “Non discuteva: picchiava”).

Il fascismo, poi, nella versione littoria che meglio conosciamo, è una sorta di bullismo elevato a sistema politico: se la scuola tradizionalmente tenta di correggere il bullo (o almeno di allontanarlo…), la Milizia lo incoraggia, lo seleziona: così negli anni neri si potevano leggere biografie sull’infanzia del duce di questo tenore:

(Y. De Begnac, Vita di Mussolini, Milano 1936; citato in De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965):
“provocatore, sempre desioso di fare a pugni, di gareggiare nella corsa e nella scalata degli alberi da frutto… che cerca la lotta per puro spirito agonistico e sempre vuol dominare, e quando vince vuol più del pattuito, e quando perde non vuol pagare la posta in gioco […]
La sua violenza e la sua volontà di dominio lo spingevano a battersi. Il pugno, il calcio erano le sue armi preferite. Si abituò presto al sangue altrui e al proprio. Provocato quasi mai, provocatore sempre…”


Un esempio per tutti i balilla d’Italia. (Non dovevano avere vita facile, i maestri, a quel tempo).

Il bello è che lo stesso Mussolini, dieci anni dopo i suoi exploit da bullo, cercò lavoro nelle scuole del Regno come maestro: con esiti disastrosi. Disastrosi per lui e per noi, perché a quel punto decise di darsi al giornalismo e alla politica…
La prima esperienza è come supplente in una scuola di Gualtieri, nel 1902: non andò malaccio, considerati i suoi 19 anni. In effetti fu scacciato per aver intrecciato una relazione con una donna sposata (con un marito sotto le armi). Ma la professione non doveva essergli piaciuta particolarmente, se preferì emigrare in Svizzera con la prospettiva di fare il manovale.
In Svizzera poi fece molto altro: il giornalista, l’oratore, l’organizzatore politico… avrebbe riprovato l’avventura dell’insegnamento soltanto nel 1906, a Tolmezzo (Udine). Per rendersi conto una volta per tutte che il mestiere non faceva per lui.

Sin dai primi giorni m’avvidi che la professione del maestro non era la più indicata per me. Avevo la seconda elementare, che contava quaranta ragazzetti vivaci, taluni dei quali incorreggibili e pericolosi monelli. Inutile dire che lo stipendio era modestissimo. Appena 75 lire mensili. Feci tutti gli sforzi possibili per tirare innanzi la scuola, ma con scarso risultato, poiché non ero stato capace di risolvere sin dal principio il problema disciplinare.
(Mussolini, citato sempre da De Felice).

Questo episodio vuole senz’altro dirmi qualcosa, ma non sono sicuro di cosa.
Da una parte, i “quaranta ragazzetti vivaci” sono il contrappasso perfetto per quel bullo che “voleva sempre dominare”… Certo, che se i ragazzetti fossero stati un po’ più buoni (e lo stipendio anche) magari avremmo avuto un dittatore in meno.
D’altro canto, il fatto che il futuro duce di trenta milioni d’italiani non fosse in grado di domare 40 ragazzini di seconda elementare, la dice lunga sulla difficoltà del mio mestiere. Un supplente fallito può sempre riciclarsi giornalista, politico, tiranno efferato: è un pensiero consolante. No. Inquietante. Volevo dire inquietante.

Dovevano passare ancora vent’anni prima che l’ex-bullo, ex-maestro, ex-socialista, cominciasse a riformare l’ordinamento dello Stato – e in particolare dell’educazione – su basi bullistiche. Ma perché lo fece? Lo fece perché anche lui da bambino era stato un bullo, o perché da maestro aveva capito che coi bulli bisogna venire a patti?

Domanda oziosa. La scuola non è la società. Ma la classe di scuola, come metafora della società, funziona sempre. Vedi ad esempio questo pezzo di ieri, su Macchianera, in cui si demolisce Fassino con una sola accusa, sleale quanto micidiale: avere un'aria da primo della classe:

Ciascuno di noi ha avuto in classe un fassino, a un certo punto della vita. Era quello allampanato, con il naso a proboscide, che fiero della sua scoliosi stava seduto al terzo banco, malgrado la statura, perché i randa delle ultime file non lo volevano.

Niente di personale, ma un tipo così non può fare "Il capo della cumpa":

Il capo della cumpa è un’altra storia. È uno che va o non va. Che si allea o non si allea. Che fa la guerra o non la fa. Anche perché di dubbi ne abbiamo già per i fatti nostri...

Uno come Lui, insomma. (Lui?)

***

Rimane questo fatto curioso: spesso i fondatori dei regimi totalitari sono persone di origini relativamente umili: se non proletari, comunque borghesi spiantati, come il pittore-imbianchino Hitler o il maestro Mussolini. L’anno scorso lo avevamo chiamato Paradosso di Otis-Findlay, dai protagonisti di due poesie di Edgard Lee Masters (le trovate ancora qui).

Questo è un grosso problema, che dovrebbe tormentare tutti gli esportatori di democrazia: di solito i regimi totalitari si sviluppano in nazioni che passano un po’ troppo velocemente dal medioevo alla modernità, dal feudalesimo al suffragio universale: Unione Sovietica, Italia, Germania, Spagna nel primo dopoguerra. Sudamerica, Iraq, Iran e altri Paesi in via di Sviluppo nel secondo dopoguerra. Cosa manca in questi Paesi? Forse il famoso ceto medio, a fare da camera di compensazione (in Germania c’era, ma era stato risucchiato dalla crisi).
È come la risposta a uno shock: la democrazia “delle opportunità” arriva prima della democrazia “dei diritti”: ma proprio i più bravi a cogliere questa opportunità (i migliori scalatori sociali) sono i più feroci a negarla agli altri. È quel tipo di dittatore che vince le elezioni e poi le abolisce.
In pratica, è il bullo: “che cerca la lotta per puro spirito agonistico e sempre vuol dominare, e quando vince vuol più del pattuito, e quando perde non vuol pagare la posta in gioco”.

E noi insegnanti, noi buoni e cattivi supplenti, in realtà a cosa serviamo? A crescere buoni cittadini, o a tener buoni i tiranni prossimi venturi? È l’interrogativo delle due meno un quarto.
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Memoria di Ferro

“Be’, quando girava “La caduta degli dei”, Luchino Visconti raccontava un aneddoto non so quanto significativo, ma certamente inquietante. Per la scena della “notte dei lunghi coltelli”, […], aveva assunto un nutrito gruppo di giovani bavaresi locali. Era già in atto quella specie di unificazione antropologica dei giovani di tutto il mondo, e anche questi erano dei giovani qualsiasi: blue jeans, capelli lunghi, andatura dinoccolata. Visconti temeva di avere il suo da fare per farne delle SS attendibili, ma si sbagliava. Con i capelli tagliati e le divise indosso si comportarono istintivamente come il regista voleva… O forse no, non era istinto, era semplicemente immedesimazione. Ma attenti: la sera, finite le riprese, questi giovani le divise non se le toglievano. Il paese in cui si girava risuonava di stivali in marcia, di sbattere di tacchi, di ordini sbraitati. Insomma, gli piaceva.

Ferruccio Alessandri, Introduzione a Ray Bradbury, Molto dopo mezzanotte, Oscar Mondatori 1979

La Giornata della Memoria, secondo me, è un’ottima idea: e credo che molti studenti della scuola dell’obbligo siano d’accordo con me.
Quando la facevo io, la scuola dell’obbligo, la Giornata non esisteva, e spesso in terza media non si arrivava a parlare del fascismo, figurarsi la seconda guerra mondiale. Insomma, c’era una certa ignoranza. C’erano anche diverse svastiche incise sui banchi. La maggior parte dei loro autori – parlo della mia scuola di provincia – non avevano un’idea precisa di cosa quelle svastiche significassero. Erano vagamente associate a gruppi punk e atteggiamenti riprovevoli e proibiti. Ma per esempio, il mio compagno G., che in quarta elementare riempiva fogli su fogli di svastiche con un pennarello nero, non avrebbe ascoltato i Sex Pistols per altri dieci anni. Era già in grado però di apprezzare l’eleganza del simbolo, perfettamente radiale e simmetrico. Non a caso ha affascinato l’uomo da millenni, sin da antiche incisioni rupestri in cui rappresenta il ciclo del sole. Karl Gustav Jung, se fosse venuto a trovarci, avrebbe magari sostenuto che G. disegnava svastiche a ripetizione per esprimere l’insorgenza degli archetipi dell’inconscio collettivo (e Jung infatti curava i suoi pazienti facendo loro dipingere dei mandala, e guardacaso i mandala sono diagrammi circolari, proprio come le prime svastiche). Ma non si è mai presentato, Karl Gustav, e noi abbiamo dovuto arrangiarci da soli, col nostro inconscio collettivo e i nostri archetipi.

(Ancora adesso, quando mi capita di scribacchiare al telefono, sto molto attento a evitare che una serie di figure astratte non possa essere interpretata come una svastica. La svastica è un tabù grafico).

Anni dopo per ragioni di lavoro mi sono rimesso a bazzicare le scuole dell’obbligo, e una delle prime novità che ho scoperto è stata la Giornata della Memoria. Non vogliatemene se vi dico che di solito è sempre una bella giornata. Io ho sempre amato la Storia, e volentieri da bambino avrei sacrificato tutte le ore di scienze e persino di educazione fisica per qualche documentario in bianco e nero. Ma oggi si può fare di più. Quest’anno dove lavoro io, le terze si sono trasferite in un cinema per la proiezione de La Vita è Bella. L’anno scorso abbiamo visto Il Grande Dittatore. (Immagino che scuole un po’ più ambiziose provino con Schindler’s List). Due anni fa stavo in una scuola che, per ragioni topografiche, era praticamente forzata a mandare i propri studenti al Museo del Deportato e al Campo di Concentramento di Fossoli almeno una volta all’anno. Una visita a Fossoli non è quel tipo di esperienza che definirei “piacevole”, ma sono convinto che qualsiasi studente tra gli undici e i quattordici anni la preferisca alle solite cinque ore di educazione tecnica, matematica italiano e religione.

La scuola dell’obbligo non è il paradiso, e molto di quello che ci impari è destinato a scorrere via: ma non c’è dubbio che i ragazzini di oggi escano fuori con una nozione molto più precisa della Shoah, grazie anche e soprattutto alla Giornata della Memoria. E allora la domanda è: hanno smesso di incidere svastiche sui banchi?
Non lo so, bisognerebbe indagare su un campione di scuole in un dato numero di anni. Quello che però che mi sento di affermare è: chi disegna una svastica, o una celtica, su uno zainetto, oggi probabilmente sa che quel segno non è soltanto un piacevole e trasgressivo motivo ornamentale. E questo grazie alla Giornata della Memoria. Però non sono del tutto sicuro che questa sia una buona cosa.

Coi ragazzini basta così, veniamo agli adulti. Se come me continuate ad amare i documentari storici, ieri avete avuto l’occasione di farne una scorpacciata. E ora che siete satolli – e forse anche un po’ saturi – ditemi: siete sicuri che questo vostro gusto sia del tutto sano?
Ci si lamenta spesso che i palinsesti televisivi non lascino molto spazio alla storia e alla cultura. Però si tende a sopravvalutare certi cosiddetti ‘fenomeni di costume’ che durano cinque o sei stagioni e si conquistano lo share con un costante bombardamento mediatico. Lo zoccolo duro dei telespettatori, secondo me, è quello che guarda da decenni gli stessi programmi più o meno nelle stesse fasce orarie. Le telenovele. I telefilm. I documentari sugli animali. I documentari sul fascismo. Se ci fate caso, li programmano abbastanza spesso. Ce n’è uno, “Mussolini. Ascesa e caduta di un dittatore”, che mi sembra sia passato e ripassato infinite volte.
È chiaro che si tratta di riempire in modo conveniente un palinsesto. Però ci sono tanti documentari storici: perché alla fine ti mostrano sempre nazisti e fascisti? Ho il sospetto che quel tipo di documentari sia programmato spesso perché ai telespettatori piace di più. Io non credo molto all’auditel, ma di vhs su nazisti e fascisti ne ho trovate molte anche nelle edicole. Evidentemente c’è chi le compra.

Ora, io non mi sogno di sostenere che gli italiani a una certa ora della notte amino guardare le immagini di Mussolini sul balcone più dei film di Franco Franchi e Ciccio e Ingrassia: però di sicuro preferiscono i discorsi del Puzzone ai documentari su Garibaldi, Mazzini, Giolitti, De Gasperi, Togliatti, Aldo Moro. Evidentemente il Puzzone ci interessa di più. Non significa che ci piace. Ma con le sue pause, le sue boccacce assurde, i suoi costumi strampalati… possiamo dire che ci affascina un po’? Lo stesso per il suo amico baffetto. I tedeschi che marciano a passo dell’oca hanno qualcosa di sinistro e seducente. Gli “stivali in marcia, lo sbattere di tacchi, gli ordini sbraitati”: è tutto così… fotogenico. Mussolini diceva che la “Cinematografia è l’arma più forte”. Ci sarà stato un motivo. I nazisti inventarono il televisore. Ci sarà stato un motivo.

Si è fatto tardi ed è ora di spegnere la tv ed andare a letto. Oggi abbiamo fatto il nostro dovere di cittadini, abbiamo ricordato la Shoah, e riguardato una serie d’immagini, molte delle quali conoscevamo già.
Domani sarà un altro giorno – ma cosa sarà restato, in noi, della Giornata della Memoria del 2004? Voglio sperare che domani nessuno ci sorprenda a marciare un po’ più marziali del solito – a trattare un sottoposto con qualche ordine secco in più. Abbiamo accettato che chi dimentica il passato è condannato a riviverlo. Resta da capire cosa succede a chi quel passato lo consuma tutti gli anni, magari seduto in poltrona, davanti all’ennesimo documentario o film di qualità. Io, per quel che vale il mio parere, non ho mai creduto molto in Karl Gustav Jung e nel suo inconscio collettivo. L’aneddoto di Visconti però mi dà i brividi. Può darsi che ci sia un nazista in ognuno di noi, che aspetta il momento buono per vestire una divisa: può darsi che la Giornata della Memoria sia quel che ci vuole per combatterlo; ma può anche darsi che diventi una strategia per solleticarlo ed eccitarlo, con qualche filmato in bianco e nero, qualche bella uniforme d’epoca, qualche racconto di brutalità e sopraffazione… Dipenderà molto da come la celebriamo, questa Giornata. Dipenderà da noi, come al solito.
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Una buona giornata (fin qui)

(Fatti miei, ma più miei del solito)

Diciamo onestamente che oggi:
- Per essermi alzato di scatto alla prima sveglia, ore 6.00, e sì che non avevo dormito parecchio;
- per aver usato correttamente l'antigelo e preso le precauzioni atte a un lungo viaggio in macchina;
- per aver tenuto a bada 25 monelli con un paio di ore diciamo passabili sul feudalesimo (più altre cinque ragazzine di un'altra classe che passavano di lì perché adesso se manca un prof si usa così);
- perché dopo 40 km. di viaggio ho telefonato a un ufficio di Bologna e ho chiesto "Potrebbe per favore dare un'occhiata alla bacheca, che è importante?" e sentendomi rispondere: "no, non posso", e senza batter ciglio ne ho dovuti aggiungere altri 80, ma tranquillamente, rispettando dove possibile il codice della strada e tenendomi aggiornato coi notiziari;
- per aver parlato in maniera breve ed efficace con due docenti spiegando la mia complicata situazione con meno untuosità del solito, e per aver non dico risolto il problema, ma dato l'impressione di affrontarlo da persona adulta, responsabile, eccetera;
- per aver incontrato una vecchia amica di amici e non aver fatto brutta figura, addirittura mi sono ricordato che si era sposata, e questo non è da me;
- per essere arrivato a casa, dopo tutto questo, era solo l'una e mezza del pomeriggio;
- per essermi messo senza troppo indugio a lavorare, e per aver fatto dieci dignitose cartelle nel giro di mezzanotte, senza mancare di rispetto alle persone che vivono con me e che forse qualcosa più del rispetto meriterebbero;
- perché naturalmente mi hai telefonato e io ho trovato argomenti per mantenere la conversazione per 15 minuti, 15 minuti di dolcissima funzione fàtica;
- perché, senza dar troppo nell'occhio, sono riuscito anche a divertirmi un po', e con poco;

ecco, per tutta questa serie di motivi mi sembra di poter concludere che ho avuto una buona giornata, e che se riuscissi ad averne altre, la mia vita sarebbe non dico normale, ma dignitosa.

E allora perché sono qui come un pirla alle 2 e 41 del mattino con 5 finestre accese ( il Manifesto, la discografia dei Beatles, Informazionecorretta, un comunicato Attac su Parmalat, e altre cose che non so perché sono andato a cercare?).

Ah, ma è il blog, naturalmente. Alle tre meno un quarto non so ancora di cosa scrivere.
Domani arriverò al lavoro con un'incudine in testa, e una gran voglia di tirarla a qualcuno.

Beh, fa lo stesso, tanto ho solo un'ora, ne approfitto torno a casa e metto a posto la recensione, poi chiamo Bologna per sapere se la talcosa è compatibile con la talaltra, poi faccio altre dieci cartelle e rivedo quelle di ieri che devono fare schifo, poi mi accascio sul pavimento, poi...
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Cantico del 25 aprile (seconda parte di tre)
(Fiaba emiliana del XXI sec. Ogni riferimento a persona o cosa continua a essere puramente casuale).
“Ho preso anch’io tant’acqua, se ti può consolare. Pensa che noi eravamo su in collina e…”
“Aspetta un attimo. Come sarebbe a dire che eri in collina?”
“Sopra Vignola, sai, volevamo vedere la fioritura”.
“L’unico anno che non t’invito fuori tu ci vai?”
“Magari quest’anno se tu mi avessi invitata…”
“E con chi sei andata?”
“Oh, Giorgio, sai, il…”
“Giorgio il figlio del magliaro? (Eeeeetchm) Quel berlusconiano di merda?”
Azzurro, non si dice berlusconiano. Si dice azzurro. Comunque è piovuto tutto il tempo, e siamo rimasti in casa”.
“In casa di chi?”
“In casa di Giorgio, sai che i suoi ne hanno una da quelle parti”.
“Ma eravate da soli?”
“Ma sai che fai un sacco di domande?”

Faccio un sacco di domande, e siccome sono quelle sbagliate, ci metto parecchio prima di trovare le risposte. Negli anni successivi mi sono spesso chiesto una cosa sciocca, e cioè: se io avessi saltato il corteo e ti avessi invitato fuori prima di Giorgio, forse non ti saresti messa con lui proprio nella piovosa giornata del 25 aprile 1994. È un’idiozia, me ne rendo conto, ma non mi sono mai perdonato di aver perso quel pomeriggio a urlare Berlusconi ladro, come se già non si sapesse, come se questo impedisse a stronzi come Giorgio e come te di votarlo, in piena coscienza, prima di mettervi in macchina e andare a prendere il fresco a Vignola.

“No, ma guarda, ti compatisco, un pomeriggio intero chiusa in casa con quel berlusconiano, dev’esser stato un bel divertimento”.
“Si dice azzurro”.
“Ma fammi il pia- Eeetch!”
“Salute”.
“Grazie”.


…I 25 aprili presenti…

Per un po’ ci siamo persi di vista, è vero: a parte le rispettive feste di laurea, i matrimoni degli amici, eccetera. L’anno scorso per esempio: si sposava Pedro e tu hai voluto venire al mio tavolo. Ho fatto il possibile per non parlare di politica, ma tu…
“Ho sentito che insegni, adesso”.
“Supplente”.
“Sai che sto pensando di fare delle supplenze anch’io?”
“Saresti un’ottima prof di matematica”.
“Naaah. Avrei dovuto fare commercio estero”.
“Per carità”.
“Certo che i prof come te, al giorno d’oggi rischiano”.
“Cosa intendi?”
“Massì, hanno anche attivato un numero verde a Bologna, per segnalare i professori che fanno propaganda politica”.
“Io non faccio propaganda politica”.
“Dai, Davide”.
“Ti giuro. Ho un paio di ragazzi, in classe… dei balilla, veramente. Però sanno la sintassi. Per me la sintassi è molto importante”.
“Quelli come te deformano sempre un po’ la realtà… poi con i libri di Storia che vi trovate…”
“I libri di Storia che ci troviamo non hanno impedito alla gente come voi di crescere come siete cresciuti e di votare quello che avete votato”.
“Ti ho colto sul vivo, eh?”
“Ma figurati”.
“Per esempio: tra tre giorni è il 25 aprile. Scommetto che dopodomani tu entrerai in classe e detterai una lettera…”
“…di un condannato a morte della Resistenza. E allora? Questa tu la chiami propaganda?”
“Ma scusa, non lo vedi? È passato mezzo secolo e ancora state a menarvela con questa Resistenza”.
“Faccio finta di non aver sentito”.
“Io quasi quasi l’abolirei, il 25 aprile. È una festa che divide più di unire”
“Mica dobbiamo essere uniti per forza”.
“Lo vedi? Siete ancora convinti di essere la maggioranza e di avere sempre ragione, e invece non è così”.
“Mi stai dando del voi. Detesto quando mi date del voi”.
“E tutti quelli che scelsero di stare dall’altra parte? Loro non esistono? Non meritano di essere ricordati?”
“Meritano di essere ricordati come quelli che hanno scelto la parte sbagliata”.
“E tuo zio?”
“Cosa c’entra mio zio”.
“Non merita di essere ricordato anche lui?”
“Ricordato per cosa? Era un fascista, punto. Stava dalla parte sbagliata, punto”.
“E quindi è giusto dimenticarsene. Tanto più che non l’hanno mai trovato, no?”
“In guerra succedono tante porcherie”.
“Ragion di più per non esaltare i ragazzini con la Resistenza. E poi gli fai leggere il Partigiano Johnny, scommetto”.
“Troppo lungo. Guardiamo il film”.
“Lo vedi come sei?”
“Dai, Costanza…”
“Guarda che io lo dico per il tuo bene, prima o poi ti denunciano”.
“Carino da parte tua”.
“E poi cosa fai il 25? Stai a casa e correggi la sintassi dei temi?”
“No, con Vitto e Toni pensavo di farmi un giro sull’Appennino”.
“Dai, davvero?”
“Una cosa non molto impegnativa, anzi, se tu e Giorgio siete liberi…”
“Giorgio lavora”.
“Beh, puoi venire da sola, mica ti mangiamo”.
“No, meglio di no. Devo stare riguardata”.
“Perché? Mi sembri in splendida forma”.
“Davvero? Devo dirti una cosa…”

(Oddio – penso – adesso mi annuncia il matrimonio. Sono così stanco dei matrimoni).
“… ma tu non devi dirla a nessuno, per ora”.
“Spara”.
“Aspetto un bambino”.

Pierino è nato sotto Natale, ha i tuoi occhi e il tuo naso, ma i capelli è ancora troppo presto per dire. Ogni tanto passo a controllare, ma il 25 aprile non pensavo di trovarli in casa. E invece:
“Toh, ma chi c’è lì? C’è lo zio Davide! Saluta lo zio Davide!”
“Ciao Pierino, ciao Costanza”.
“Fagli un sorriso!”
Uaaaaaaah!
“Mi sa che è un po’ presto per i sorrisi”.
“Quand’è di buon umore li fa. E tu come mai da queste parti? Ti pensavo a qualche corteo”.
“Sono andato stamattina a quello dell’Anpi”.
“Quello dell’Anpi? Ci andavo quand’ero piccola”.
“Lo so”.
“Danno ancora gnocco fritto?”
“Come no”.
“Certo che siete dei begli incoerenti, voialtri”.
“Eh?”
“È da sei mesi che andate in giro a fare cortei per la pace, e adesso festeggiate il 25 aprile come se niente fosse”.
“Perché non dovremmo…”
“Dei begli ipocriti. Però gli sciiti e i curdi in Iraq non avevano il diritto di festeggiare, secondo voi”.
“Non ho detto questo”.
“È quello che pensi. Dove credi che saremmo, oggi, senza una guerra? Senza gli americani? Avete una faccia tosta incredibile”.
“Ci vuole della faccia tosta anche a paragonare Bush a Roosvelt. Questa guerra l'hanno fatta per il petrolio, dai”.
“Per il petrolio, sentilo! Mi sei rimasto al petrolio!"
"Il petrolio, sissignore".
"Non capisci che gli anglo-americani hanno liberato un Paese, esattamente come hanno fatto sessant'anni fa con l'Italia? Il 25 aprile è la festa dei difensori della democrazia e della libertà…”.
“Ma se l’anno scorso volevi abolirla...”
“La nostra festa, non la festa dei pacifisti come te. È la festa dei combattenti. Come mio nonno”.
“Perfetto, adesso tuo nonno è diventato un simbolo della libertà. Siamo a posto”.
“Era una guerra. In guerra succedono tante porcherie”.
“Ragione in più per…”
Uaaaaaaah!
“E se parlassimo d’altro?”
“Comunque potevi venire stamattina, mica dobbiamo esserci per forza soltanto noi”.
“E il pupo dove lo sistemo?”
“A proposito, io sono passato, ma credevo di non trovarvi. Pensavo che col ponte sareste andati a Vignola”.
“Niente ponte. Giorgio lavora”.
“Come sta?”
“Sta bene, sta bene”.
“Senti, perché non usciamo un po’ fuori? È una bella giornata”.
“E il pupo?”
“Lo portiamo in carrozzina. Adesso c’è quella ciclabile che arriva fino all’argine”.
“No, è meglio di no”.
“Dai, si prende un po’ d’aria”.
“Il cielo si sta coprendo, non mi piace”.
“Ma tu stai bene?”
“Eh?”
“Va tutto bene con Giorgio?”
“Lo sai che fai troppe domande?”
“Se ogni tanto qualcuno mi rispondesse”.
“Allora, se lo vuoi sapere, la risposta è no. Non va bene. Non può sempre andare bene. Contento?”
“No”.
Ghe!
“Guarda! Sta sorridendo. Ciao, Pierino! Sei contento, Pierino?”
Ghe!

(Continua).
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Potere Insegnante
(Avvertenza: pezzo fazioso e autocelebrativo. E ci sono tanti altri blog interessanti in questi giorni. Avvertiti).

La scuola è naturalmente per la pace. Come fa a non essere per la pace?
Anonimo sindacalista

So che non siete d’accordo, e non penso di riuscire a convincervi, ma io credo che la diplomazia internazionale potrebbe tranquillamente essere affidata agli insegnanti della scuola dell’obbligo italiana. La situazione, più di tanto, non potrebbe peggiorare – ma se migliorasse?

Quando parlo o sento parlare di containment, mi rendo conto che la maggior parte delle persone non ha un’idea di ciò di cui si sta parlando. All’università, nei master, ai corsi di autostima, si impara ad affrontare i nostri nemici di petto, come se si trattasse sempre di nemici da poco e noi fossimo tanti piccoli Rumsfeld, tante piccole superpotenze. E questo va benissimo, per degli adulti abituati a trattare con altri adulti, più o meno dello stesso segmento sociale.
In fondo sono animali mansueti, gli adulti, gli fai una sfuriata e loro arretrano, istintivamente. Non vogliono grane. Prendili di petto, insegnagli chi è il capo, e loro abbozzeranno.

Ma la scuola dell’obbligo – eh, signori – la scuola dell’obbligo è tutt’un’altra cosa. Mettete da parte i vostri ricordi adolescenziali; mentre voi crescevate e facevate carriera l’Italia è cambiata, e la scuola per prima. Per voi la società multietnica consiste in pratica nel dare una mancia al lavavetri marocchino, e già la cosa è un piccolo fastidio. Ma vostro figlio e il figlio del lavavetri fanno la stessa scuola e corteggiano la stessa ragazza. La lotta di classe riparte da qui, ed è più dura di quanto non crediate.
C’è poco da fare i gradassi, qui. Qui se vuoi delle grane sei il benvenuto. Ed è inutile mostrare le palle, c’è gente pronta a staccartele a morsi.
L’insegnante lo sa.
L’insegnante non ha letto Sun Tzu, non ha letto Clausewitz, ma dopo una decina d’anni di scuola dell’obbligo potrebbe dare qualche lezione a Rumsfeld. Una molto semplice, per esempio: guai a innervosire un avversario disperato. Non c’è nulla di più pericoloso di un torello messo con le spalle al muro. I nemici non si prendono di petto, mai. I nemici vanno addormentati, lentamente. Questo è il containment.
E un insegnante lo pratica tutti i giorni, tre o quattro ore al giorno, solo contro 25/30 torelli in piena ebollizione ormonale. Per farsi rispettare non dispone di nessun armamento convenzionale: per disarmare chi brandisce forbici acuminate o cutter non può far ricorso all’uso della forza, né minacciare ritorsioni. I presidi li sorvegliano, i genitori diffidano di loro, i bidelli scuotono la testa. E le loro macchine restano nei parcheggi scolastici, incustodite, un’esca per qualsiasi vendicatore di ingiustizie.
Eppure in un qualche modo l’insegnante ce la fa. Non sempre, certo. Sui giornali che sfogliate, sotto alle decine di pagine di guerra, a volte troverete nella cronaca locale qualche trafiletto sulla scuola dell’obbligo: un pestaggio, un accoltellamento, un atto vandalico, un racket di merende. È solo la punta dell’iceberg. Il resto è containment, quotidiano containment. Pino, non picchiare Yu col righello. Aziz, ti do il permesso di uscire per fare la pipì, non per fregare il giubbino firmato di Alì. Concetta, se ti do Buono invece di Distinto è perché te lo meriti, non perché sono razzista nei confronti della tua etnìa: cerca di spiegarlo a tuo padre che ha già chiamato il preside per suggerire il mio trasferimento.

Non va sempre bene. Ogni tanto qualcuno esce di testa. La gente non lo sa, ma l’insegnamento è una professione a forte rischio di malattia fisica e mentale. Eppure di solito – novantacinque volte su cento – il containment funziona. Come funziona?
Non lo so. Onestamente. Da qual che ho capito, il containment è un misto di pazienza, simpatia, antipatia, ironia, scenate teatrali, impassibilità, urli, silenzi, minacce, moine, ispezioni, pugni sulla cattedra, praticamente tutto quello che può fare un essere umano senza arrivare al contatto fisico. Qualcosa di molto poco elegante, e tuttavia novantacinque casi su cento funziona.

E a quel punto viene anche spontaneo cercare di applicarlo fuori dalla scuola, ai rapporti con gli amici e coi conviventi, e perché no, alla politica internazionale. Cosa si potrebbe fare con un dittatore del Medio Oriente che tiranneggia il suo popolo e forse dispone di armi di distruzione di massa? Si sarebbe potuto provare, per esempio, con la pazienza, le scenate teatrali, l’impassibilità, gli urli, i silenzi, le minacce, le moine, le ispezioni, i pugni sulla cattedra… con qualsiasi cosa che non fosse lo scontro diretto. Non so cosa ne pensi Sun Tzu o Clausewitz, ma un insegnante lo sa: è una follia sfidare in campo aperto chi non ha più niente da perdere. Siamo sicuri di aver provato davvero in tutti i modi? Siamo sicuri di non aver ceduto all’emotività, all’ancestrale bisogno di mostrare le palle, contro chi è abbastanza sciocco e disperato da potercele strappare?

Ma io chi sono, e a nome di chi parlo? Io sono un supplente, e forse non sono fatto per questo lavoro. (E tanto, per come si stanno mettendo le cose, non andrò mai di ruolo). Sono una persona discretamente coraggiosa, anche nel senso d’imprudente: ho visto le cariche di Genova e i carri armati a Ramallah, e non me la sono fatta sotto. Invece certe mattine, prima di andare a lavorare, mi succede: me la faccio sotto. E questo qualche cosa vorrà dire.
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Maestri di vita (7) – Quinto Orazio Flacco

Di solito non mi pesa troppo il mio lavoro, tranne la notte del giovedì.
Venerdì mattina ho cinque ore di seguito, e per me sono molte, cinque ore d’italiano ai sordi. Ma se voi ne fate di più (com’è probabile) adesso mi state già invidiando: faccio un lavoro stimolante, poche ore al giorno, e mi lamento. Di cosa mi lamento?
È intutile spiegare. Orazio ha già scritto una nota satira al riguardo.

Come mai, Mecenate,
nessuno, nessuno vive contento
della sorte che sceglie
o che il caso gli getta innanzi
e loda chi segue strade diverse?


Giovedì sera ho una riunione con amici, che spesso va avanti fino a tardi. Quando alla fine arrivo nel piazzale, parcheggio sempre davanti a un signore che dorme sotto il portico. Nella bella stagione lo trovo ancora alzato: leggiucchia la Gazzetta dello Sport prima d’imbottirne il sacco a pelo. Ma adesso è inverno, e il termometro della mia auto a volte segna meno cinque.
Così mi capita, giovedì dopo giovedì (per l’orologio è già venerdì mattina) di passare davanti a questo signore, e invidiarlo. Perché domani lui si sveglia quando vuole, e non deve fare le cinque ore che faccio io.

Penso a questa cosa, nel piazzale: e siccome c’è un gran silenzio a quell’ora, mi capita di ascoltare il mio stesso pensiero: e ascoltandolo, me ne vergogno.
Poi giro l’angolo, e già sto pensando a domani, a quello che devo fare per passare cinque ore dignitose… e quel signore già l’ho dimenticato. Fino al giovedì seguente.

“Beati i mercanti”,
esclama il vecchio soldato,
le ossa rotte da tanta carriera;
“Meglio la vita militare”,
ribatte il mercante sulla nave in burrasca,
“Vuoi mettere? si va all’attacco
e in breve o muori o vai in trionfo”.


Quando finirà? In giugno, forse, e poi troverò un lavoro più soddisfacente. Anche quello che faccio adesso, non è così male: ma non è normale trovarsi a invidiare un senzatetto, anche solo per un minuto alla settimana.
Ho la sensazione, però, che non finirà in giugno, né in settembre, né più tardi: che continuerò a invidiare i senzatetto e i benzinai, gli assistenti universitari e gli autisti dei furgoni, e continuerò ad agitarmi inquieto nel mondo del lavoro, come il malato nella branda, fino all’età della pensione (quale pensione?) e anche oltre.

E come faccio a saperla così lunga? Facile. Ho letto Orazio, io.

A farla breve, senti
dove voglio arrivare:
se un dio dicesse: "Eccomi qui,
pronto a fare ciò che volete:
tu, da soldato, sarai mercante,
e tu, giurista, un contadino:
scambiatevi le parti
e via, uno di qua, l'altro di là.
Che fate lí impalati?"

Rifiuterebbero,
eppure avrebbero potuto essere felici.
Non ha forse ragione Giove
a sbuffare irritandosi con loro
e a sancire che d'ora in poi
non sarà piú tanto arrendevole
da porgere orecchio a preghiere simili?


Quinto Orazio Flacco, Sermones I, 1.

È commovente (e un po’ triste) accorgersi che duemila anni, il motore a scoppio, la penicillina, i pomodori e la cibernetica non ci hanno cambiato più di tanto.
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Eros e thanatos uniti indissolubilmente come sempre, più di sempre, sotto un muro di chitarre melodiosamente sporche e disturbate, tra “Noise” e avanguardia. “La scelta ha a che fare con “Le lezioni americane”, di Italo Calvino, un libro che mi è stato regalato di recente e che sulla leggerezza dice cose folgoranti”.
(I Marlene Kuntz sull'Espresso...)

Il popolo lo vuole, il popolo si becchi il
Basic Culture Simulator 1.3
(mai più nozioni superflue)

La citazione qui sopra è un semplice esempio di come fare per non sembrare colti in due righe. Infatti:
– Non si dice mai, mai che un libro “ci è stato regalato di recente”! La vera persona colta ha già letto tutti i libri del mondo prima che qualcuno glieli regalasse.
– In effetti, la persona veramente colta non usa mai il verbo “leggere” riferito a un libro. I libri non si leggono mai! I libri si rileggono soltanto! (“Rileggevo giusto ieri le lezioni americane di Calvino, e sono rimasto ancora una volta folgorato…”)
– Infine, se proprio dobbiamo folgorarci con un libro, sarebbe opportuno evitare di farlo nelle prime pagine, perché così suggeriamo l’idea di non avere letto oltre. Uno dei motivi per cui in tanti citano la leggerezza di Calvino, è che si trova nelle prime dieci pagine delle Lezioni Americane. Per questo il mio consiglio è: cominciate a leggere un libro da pagina 100. Poi, alla prima folgorazione, potete pure fermarvi, ma darete un’impressione di maggior serietà.

E proseguiamo coi vostri dotti contributi:


da Vinci, Leonardo: questa ditela che fa effetto: “Ha attraversato tutte le arti con il talento del neofita”. Nella sua bottega ha inventato, scoperto, dipinto, scolpito, inchiappettato i suoi apprendisti. Ma soprattutto non dimenticatevi di dire che mangiava e defecava allo stesso tempo (non ditelo a tavola!)! (Uiallalla)

D’Annunzio, Gabriele: I maschietti lo ricordano per l’uso piuttosto scanzonato delle costole (una leggenda che passa di spogliatoio scolastico in spogliatoio scolastico); le femminucce gradiranno sapere che ha dato il nome alla Rinascente. Entrambi poi ricordano la Pioggia nel Pineto, una poesia che descrive con un profluvio di versi brevi la tipica situazione degli spot badedas: una tipa cammina in un bosco con una maglietta bagnata.
(Uno dei miei massimi successi come prof fu quando lessi la Pioggia nel Pineto in classe, per dimostrare come si leggono le poesie. All’ultimo “Ermione” partì un applauso spontaneo:
“Ma almeno avete capito di cosa parla?”
“Assolutamente no, prof!”)

Mann, Thomas: scrittore tedesco. Da non confondere con il fratello, comunista. Lui invece era omosessuale. Quando ti parlano di un libro noioso citare "La montagna incantata" : 1000 pagine in un sanatorio dove non succede assolutamente nulla. Tanto nessuno l'ha letto, hanno letto tutti "la morte a venezia" perché è corto.
(Massimo)

Mendel, Gregor: Abate boemo, naturalista. Evidentemente i frati non hanno molto da fare nei conventi, sicche' il buon Gregor si mise a studiare le piantine di piselli. In pratica, la prima teoria degli OGM. (Marcello Barisonzi)

Pascal, Blaise: personaggio confuso, religioso, filosofo, matematico...Ha inventato la calcolatrice da piccolo per aiutare il papà a fare i conti, ma la cosa più famosa è il linguaggio Pascal per il computer (per una spruzzata di conoscenza di computer: "ma ormai non lo usa più nessuno: meglio il C++!") (Apicella)

Rousseau, Gian Giacomo: ha scritto l'"Emilio" per spiegare all'umanità come si allevano i bambini e come si educano i giovani. Peccato che poi ha mandato i suoi 5 figli in orfanotrofio!
Gli anarchici, poi, vedono in Rousseau il punto di riferimento culturale. Ah, chiamava la sua morosa "Mamma". Era permalosissimo e si faceva fino a 10 clisteri al mese. (Bramiero Pinna)

Saba, Umberto : Saba è da citare solo con gli amici gay o triestini, dal momento che nessun altro lo conosce. E' una versione contemporanea di Leopardi ma essendo gay non fa battere il cuore alle prof.
(Luca)

Schroedinger, Erwin: Fisico austriaco, fondatore della meccanica quantistica.
Famoso il suo esperimento del "gatto di Schroedinger": se chiudamo un gatto in una scatola, non possiamo sapere se sia morto o vivo finche' la scatola non viene riaperta; quindi, finche' il gatto si trova dentro la scatola, lo possiamo definire come 50% vivo e 50% morto. Scrisse il suo piu' famoso lavoro sulla meccanica quantistica in uno chalet di montagna, spassandosela con l'amante. Ebbe tre figli ileggittimi da mogli di colleghi. (Marcello Barisonzi)

la fisica quantistica: "e, come diceva aisenberg [mi raccomando! mai aspirare la "a" iniziale!], se conosci la velocità di un oggetto non conosci la sua posizione - o era viceversa? bè, comunque, fai conto che sei in macchina: se sei dentro leggi il tachimetro e vedi a quanto vai, ma non puoi sapere in che punto della strada sei finché non ti fermi".(Delio)

Queneau, Raymond: enigmista francese, in un libro (Esercizi di stile) ha scritto la stessa piccola storia in cento stili diversi. Una bazzecola.
Zop è molto più bravo…
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Il cielo è azzurro di un azzurro febbraio, e alla fermata del bus i ragazzini hanno facce torve: è Tempo di scrutini, again.
Tempo di dissanguar le rape.

Vi siete mai chiesti come si scrivono i “giudizi globali”? Quegli elaborati giri di parole sull’ultima facciata della pagella dove per venti righe si indugia sul concetto “il ragazzo ha qualità, ma potrebbe dare di più?”
Io sì, me lo sono sempre chiesto. Almeno per cinque secondi a quadrimestre. (Poi me ne dimenticavo. Nessuno ricorda i giudizi globali).

E ora che sono dall’altra parte della barricata, so. Esistono campionari di frasi fatte, che si tramandano di consiglio di classe in consiglio di classe. I più antichi si perdono nella notte del ciclostile, ma i più moderni si conservano nei computer, avete letto bene, c o m p u t e r .
L’anno scorso dovevo lavorare su un 386-Olivetti parastatale (sì, quelli con lo sportellino per l’alimentazione a carbonella), che ignorava ancora l’uso del mouse. Una bella scuola di umiltà per un ex cliccatore professionista: dovevo prendere lezione da gentili cinquantenni (“adesso premi effe dieci, poi vai a destra, premi return…”).
La scuola dove sto quest’anno è già nell’era “uord-per-uindos”. C’è un Dischetto con tutte le frasi usabili: tieni quello che ti piace e cancelli il resto.

L’attenzione in classe è stata sufficientemente/abbastanza/molto consapevole costante vivace buona discreta superficiale scarsa saltuaria discontinua labile
Possiede un metodo di studio sufficiente abbastanza molto ordinato autonomo diligente personale preciso produttivo efficace
Non ha ancora acquisito un metodo di studio e/perché l’organizzazione del lavoro è dispersiva disordinata superficiale frettolosa sbrigativa poco precisa poco autonoma manca di rielaborazione…


Resta ben poco spazio per l’improvvisazione creativa.
È per questo che vorrei salvare il piccolo capolavoro di una mia collega che, non sapendo dell’esistenza del Dischetto Globale, i giudizi se li è scritti a mano:

Si avvia lentamente verso l’acquisizione dei prerequisiti necessari ad affrontare le più elementari abilità di base.

Leggetelo due o tre volte e poi ditemi se non si merita un Oscar per l’Eufemismo.
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La verità sul supplente di italiano

C’è gente che è passata di qui, ha letto il pezzo sulla lezione di Ungaretti, e si è commossa: che sensibilità, che stile, che fine pedagogia. Chissà com’è bravo, questo prof. E chissà come gli vogliono bene i suoi studenti.

La realtà, naturalmente, è ben’altra.
La realtà è che io sono un povero incompetente, con la tendenza a cacciarsi nei guai e ad accettare le offerte di lavoro più inverosimili. La realtà è che dopo cinque mesi ho la netta sensazione di non aver cavato un ragno dal buco.
L’unico sensibile miglioramento: da un po’ di tempo in qua non mi capita più di chiudere la porta dell’aula a chiave e minacciare di buttar la chiave dalla finestra. Ma è dura. È così dura.

Sapete quand’è che uno capisce che non ama il suo lavoro (coliche a parte)?
Quando si mette a fantasticare di come sarebbe bello, tutto sommato, fare il commesso in un ipermercato, girare coi pattini tra gli scaffali tutto il santo giorno, e d’estate c’è l’aria condizionata. O il benzinaio – che preoccupazioni ha un benzinaio, se non fuma? Se facessi l’autista di furgone potrei ascoltare la radio tutto il giorno. E anche in fonderia pagano bene…

A volte mi sembra di aver davanti dei marziani. Simpatici, per carità, ma io non ho l’abilitazione per insegnare italiano ai marziani. Ammesso che serva a qualcosa l’italiano su Marte.
E vado a letto col batticuore, e mi sveglio con l’angoscia. Ho fatto il carabiniere, e non andava bene; ho fatto il pagliaccio, e non andava ancora. Ho urlato ed era inutile, sono stato zitto e loro urlavano. Vien voglia di corrompere il bidello, che suoni la benedetta campana, o fuggire sulla tazza del cesso, come Lodoli, che è quello il posto del letterato nella scuola dell’obbligo.

Quanto al famoso Ungaretti, ieri sono arrivati i compiti delle vacanze. Sentite un po’ – giusto per ristabilire la verità storica:

1) Secondo te, è una poesia allegra o triste?
triste

2) Cosa fa Ungaretti la notte di Natale?
Fa che non ha voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade

3) “Ho tanta stanchezza sulle spalle”. Perché è stanco?
Perché scrive molte poesie

4) “Gomitolo di strade”. Questa immagione è molto strana. Cosa vuole dire?
Doveva morire, invece no

Morale: sono più bravo a scrivere le cose che faccio che a farle. Non fidatevi di me, specie quando scrivo in prima persona.

***

Postilla su Wittgenstein (Ludwig):
Mi è venuta in mente un’altra cosa di lui: a un certo punto cercò di fare l’insegnante in una scuola media, ma non ce la fece. Fuggì, dopo aver bussato uno dei suoi scolari. Si rimise a fare il filosofo del linguaggio.
Beh, non è poi male, fare il filosofo del linguaggio. Almeno, dal di fuori parrebbe… bisognerebbe chiedere a Momo.
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La settimana scorsa mi son successe parecchie cose… partirò dai
Colloqui coi genitori

Quante volte nella vostra vita vostra madre / vostro padre si è sentito ripetere: "suo figlio dovrebbe impegnarsi di più"? Beh, lasciate dire a me: mentivano. Il 90% delle volte non è questione d'impegno: testoni siete e testoni restate, ma questo ai genitori non si può dire.

"Signora, no guardi, suo figlio non capisce niente".
"Ma forse, se si impegnasse di più…"
"Impegnarsi in cosa? Quello è coglione. Punto. Lo attende una triste vita di umiliazioni. Lasci perdere. S'impegni lei, piuttosto, a farne un altro".

Queste cose non si possono dire, per cui ai vostri genitori noi prof abbiamo sempre detto: potrebbe impegnarsi di più. Non è il caso di offendersi: tanto lo sappiamo sia noi che voi, che più di tanto non vi siete impegnati. Ma almeno vi abbiamo dato una chance di credere in voi stessi. E voi non l'avete raccolta. Perché? Perché siete coglioni. Visto?

E poi, cosa pretendete da noi, che ci impegniamo a inventarci una storia diversa per i cinquanta monelli che valutiamo? Per-quel-che-ci-pagano? No, signora, il ragazzo potrebbe fare molto di più, potrebbe impegnarsi. E se lo ha già sentito dire quaranta volte è perché è quaranta volte vero.

E poi c'è la disperata mamma di Gargiulo, un bambino di prima media che per altri otto anni (a ministro piacendo) sembra condannato a surfare sulla soglia dell'insufficienza, che s'impegni o no. Non è stupido, ma è il solito iperattivo iperdistratto che non si sa come riesce a far sentire la sua voce flebile nel pandemonio generale, così che alla fine la nota se la becca lui per tutti. Tipi così i prof li riconoscono al primo giorno di scuola, e li tartassano fino al diploma. La mamma scuote la testa rassegnata, è già passata da francese e matematica.
Io non so veramente cosa dirle.

Cioè, da qualche parte ho dei voti, ma sul registro non li ho ancora messi… sufficiente mi pare… o no? Sufficiente-meno-meno, probabilmente. O non ha preso un Buono Meno in grammatica? Sì? No? Stava seduto di fianco a quel secchione di Bonelli, avrà copiato… me ne sarei accorto, troppo rumoroso per non farsi beccare…
Insomma, Gargiulo l'ho ben presente, ma al di là del frastuono che produce in classe non ho la minima idea del suo rendimento. Che le racconto?

Chissà se in quel corso biennale che devono fare i prof adesso per l'abilitazione sono previste anche materie di questo tipo: Come intrattenere il genitore, cosa raccontargli. La Letizia potrebbe scritturare qualche esperto di marketing all'uopo.
Ma io sono un supplente, e il bello dei supplenti è che non sono tenuti a sapere come si fa, possono improvvisare. E io improvviso.

Per esempio, la settimana scorsa studiavamo l'Eneide. Non sono tenuto a sapere il perché gli undicenni debbano leggere brani dell'Eneide (per di più nell'incomprensibile non-traduzione della Calzecchi Onesti). Passi l'Odissea con le sue maghe e i suoi giganti, di cui in classe è stata fatta notare la somiglianza coi personaggi di Harry Potter, ma… l'Eneide? Cosa tratterranno degli undicenni sull'Eneide? Cosa ho trattenuto io? Ben poca cosa. Ricordo al liceo di aver notato l'inadeguatezza di questo eroe epico, un piagnone, francamente. E… ah, sì, la pietas. Va bene, parliamogli di pietas, con l'accento sulla i che non vuol dire solo pietà, ma anche compassione: soffrire insieme, calarsi nelle sofferenze altrui, non solo capire le ragioni dell'altro, ma soffrire anche i suoi dolori.

Ecco perché Enea è tanto piagnone: perché dovunque va si trova a piangere i dolori degli altri. Vedete, ragazzi? Virgilio riscrive la storia del Cavallo di Troia. Perché lo fa? Non bastava Omero? Ma lui la racconta dalla parte dei troiani. Forse è la prima volta che qualcuno prova a raccontare la storia dalla parte dei perdenti. E il suo eroe, Enea, mentre racconta frignando la notte del saccheggio esclama: "ah, perfino i più duri dei miei nemici al ricordo non tratterrebbero le lacrime". Ma va là. I greci passavano le loro serate a ridere e raccontarsi di come erano stati dei drittoni con i troiani – questo Virgilio lo sapeva benissimo. Ma Enea è talmente pietoso che da oppresso riesce anche a sentire gli eventuali sensi di colpa dell'oppressore. Un eroe epico, a suo modo. Pianta in asso Didone, ma piange per lei. Piange per tutti.

Ora che ci penso, forse dovremmo studiarla di più, l'Eneide. Siamo troppo abituati a vedere il mondo dalla parte dei vincitori – mi immagino Ferrara e Lerner organizzare una veglia per gli Achei, il giorno seguente il saccheggio di Troia. "Dovevano farlo! Non capite che l'Ellade è minacciata nella sua stessa esistenza?". Siamo troppo abituati a vedere il mondo dalla nostra parte, e chi ci contraddice ce l'ha con noi. Lo Stato ci opprime. I Vigili Urbani ci odiano. Il prof che mi dà brutti voti è uno stronzo, ce l'ha con me. Il ragazzo che prende brutti voti dovrebbe impegnarsi, se non s'impegna è per farmi dispetto, ce l'ha con me. Raramente ci rendiamo conto che gli altri vivono tutti i giorni che viviamo noi, e hanno dolori e problemi come possiamo averli noi. C'è chi ha deciso anzi che i dolori della maggior parte della gente non gli interessano, perché hanno una pelle diversa o un dio diverso o non sanno tenersi pulito intorno, e allora che se li bombardano sai che mi frega, così imparano a stare a casa loro.

Anch'io certe volte vi odio, ragazzi, quando per esempio suona la campana della quinta ora e in quindici sostenete che è vostro diritto andare in bagno e andarci subito. Ma l'altro giorno, mentre gestivo il frastuono degli incontinenti, ho sentito proprio Gargiulo (che di quel frastuono era in gran parte responsabile) squittire: "Però! Certo che è difficile fare il prof".

Fare il prof. Effettivamente è difficile. In questi giorni ho una raucedine cronica e una serie di dolori, brufoli e vesciche che fanno pensare. Dormo poco. Non sto tanto bene. E Gargiulo se n'è accorto. Per un attimo. Ha avuto per un attimo compassione.

Io credo che la compassione sia l'unica cosa che può salvare l'uomo, e che il mondo dovrebbe essere affidato esclusivamente dalle persone compassionevoli, come Enea, quel piagnone, o quell'iperattivo di Gargiulo, che per otto anni presumibilmente continuerà a slalomare tra le insufficienze, ma poi diventerà un bravo ragazzo e un brav'uomo iperattivo e iperdistratto, in mezzo a tanti Ottimi e Distinti signori impietosi e insensibili. Ho pensato questo mentre guardavo la signora Gargiulo scuotere la testa, aspettando la mazzata. Ho pensato che mi sembrava una brava persona, laureata no, e probabilmente la mettevo in soggezione. E che si vergognava del figlio testone, e che già pensava a come punirlo, la playstation gliel'ha già tolta, la televisione solo fino alle dieci, e adesso cosa? E ho improvvisato:

"Signora, comunque suo figlio si sta impegnando, e si vede".
"Ah, davvero?"
"Sì, ha anche preso buono in grammatica".
"Era un buono meno meno".
"Sì, io do tutti questi meno per spronarli, ma diciamo la verità, quello era un buono tondo".
"Ah sì?"
"Ma sì. Certo, non deve mica sedersi adesso. Deve continuare a impegnarsi".
"Naturalmente".
"Però è un bravo ragazzo, sa?"
"Ah sì?".
Sì, e gli voglio un po' di bene, stavo per dirle, siccome erediterà il mondo. Ma me lo sono tenuto per me.
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Gli estremisti in gita

Stasera ho messo da parte un po' di tempo e sono andato a vedere le corriere partire, in Cittadella. Da qui dieci anni fa partivo per le gite scolastiche… direi che per ora il clima è quello.

C'è un bel vento, che a Modena è raro, porta i germogli dei ciliegi e spazza via i cattivi pensieri e i blocchi del traffico nel week end. Pensionati non ne vedo, l'orario è proibitivo. Lavoratori e studenti. C'è un solo ragazzo coi rasta ed è il primo a essere intervistato.
Li spio dai finestrini. Prima o poi il capocorriera tirerà fuori un modulo per la raccolta delle firme, darà un'occhiata distratta al foglio che spiega che i dati vanno scritti in stampatello e che valgono solo le firme dei residenti… e per quanto distratto capirà, perché l'ho scritto io, e io so essere chiaro e cortese quando voglio.
Madame, che è la referente Attac, ha visto bene di lasciare a casa il cellulare, così non c'è proprio dubbio che riusciremo a beccarci. "Dai", mi fa, "i posti ci sono, vieni stasera, domani fai filotto".
"Non posso". Devo consegnare i compiti di geografia. Anzi, stanotte devo valutare quello di Nizzoli che ha scritto che…

…IN CINA C'È UN GRANDE SVILUPPO DEMOGRAFICO, CHE PERÒ NON SI SVILUPPA EQUAMENTE, OVVERO: IN ALCUNE CITTÀ C'È PIÙ GENTE, MENTRE IN ALTRE MENO. (Questo, ho scritto io, in rosso, perfido, succede ovunque…) IN QUESTO PAESE SECONDO ME VIENE USATO UN BUON METODO, E CONSISTE NEL NON POSSEDERE PIÙ DI UNA MACCHINA. QUESTA REGOLA DOVREBBE ESSERE PRESA COME ESEMPIO ANCHE DA GRANDI POTENZE COME GLI STATI UNITI, I QUALI ANNO (la acca, Nizzoli!) DUE, TRE O A VOLTE QUATTRO MACCHINE PER FAMIGLIA.

Sì, Buono Più, direi -– anche se dovrò spiegargli che i cinesi non hanno una macchina per famiglia, e soprattutto che i carpigiani possiedono in media più macchine degli americani.
Saluto i miei compagni, che hanno la bandiera più bella e più pesante. Fate i bravi e state lontano dagli estremisti, a'm'arcmand.
"Gli estremisti siamo noi".

Ah già, è vero. È successo anche a me di dirlo a un signore, un diessino che era venuto a una riunione una sera, quando già stavamo sbaraccando. Il mio numero, mi spiegò, gliel'aveva dato la Referente Diesse per l'Area No Global. Le ginocchia mi cedevano un po', ma mi misi ugualmente a spiegare quand'era nata l'associazione, prima in Francia, poi altrove, poi in Italia, i giorni di Genova, la campagna di raccolta firme, ecc.

"Va bene", disse lui, "ma le frange estremiste?"
Mi sono guardato intorno. Seduto davanti al PC Defarge controllava febbrile il suo sito. In un angolo Ramon parlava di organizzare una serata danzante al Florida per discutere del caso Argentina. Le ragazze raccoglievano i vuoti (il nostro comitato è il maggior consumatore di birre della Casa della Pace). Fuori probabilmente qualcuno parlava di territori occupati, dell'ultima sbornia di Agnoletto o di quella volta che Ignazio Silone, al Comintern…
"Siamo noi, le frange estremiste", gli ho detto.
Ma sì, siamo noi, non cercate altrove. Siamo noi i criminali che Maroni non vorrebbe vedere al corteo di domani, quelli che generano il noto Clima di Odio. Ci troviamo tutti i giovedì sera in via Ganaceto 45, l'ho detto anche al tipo di Forza Nuova, non ho difficoltà a ripeterlo qui. Domani se mostreranno il corteo e diranno "un mezzo milione", cercate una bandiera rossa con una percentuale bianca: lì sotto (molto sotto) c'è Defarge.

Anche Nizzoli, così giovane, è già un estremista. Non ha ancora imparato a mettere l'acca nel verbo avere e già vuole dar lezioni agli americani. Bisognerebbe dargli una lezione. Domani vado e gliela do. Magari gli do anche un Distinto. Sì, è ingiusto -- la vita è ingiusta. Poi prendo il treno, perché non ne posso più di questo Clima di Odio, ho bisogno anch'io di un po' di respiro, una bella gita. A Roma, magari.
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Mi si nota di più se mi accascio
"No, no, non ero arrabbiato. Ero stupefatto, poi ero sul palco, poi ho parlato. Ho parlato molto?". No, non molto, due minuti. "E cosa ho detto esattamente?"

Secondo me Moretti non voleva davvero. Non dico che non abbia fatto bene. Ma secondo me a quest’ora si sta dando pugni in testa per la stizza. Certe cose le pensiamo tutti, certe cose le diremmo tutti se ci facessero salire su un palco dopo un comizio di Fassino e Rutelli, però poi ci pentiremmo. Forse.
Dico forse, perché Moretti io non lo capisco bene. Con tanti amici che mi citano l’Autarchico a memoria, io l’unica volta che l’ho visto mi devo essere addormentato. Vero che certe sere a Santa Margherita avrei preso sonno anche con Die Hard 2, ma insomma, è un personaggio che non sento tanto mio. Anche questa barba integrale che mi è cresciuta adesso non c’entra niente, mi torna solo utile per simulare con gli studenti età mai vissute.

“Dovete sapere che quando io avevo la vostra età… più o meno dopo la terza guerra punica…”
“Ma prof, insomma, lei quanti anni ha?”
“Io ho tutti gli anni del mondo, Carbone”.
“Sembra giovane, però…”
“Perché mi nutro del sangue degli studenti importuni. Dicevamo: quando ero giovane io, figuratevi, internet praticamente non esisteva…”

Mi è tornato in mente Moretti per un altro motivo, tutto personale. Insomma, Giuliana aveva fatto questa festa e per telefono si era capito che ci teneva. Aveva chiamato un po’ di gente che conosciamo, ma io non sapevo bene come comportarmi. Sarà stata la tensione, lo stress di un pomeriggio impiegato in scrutini di ragazzi conosciuti una settimana prima, sarà stata qualche melanzana fritta o l’uvetta nell’insalata, insomma, la gastrite ha risolto tutti i miei problemi. Sono sprofondato prima sul divano, poi sul letto in fondo al corridoio, poi sul pavimento del bagnetto, poi di nuovo a letto, poi è venuta ora di salutare tutti e andare a casa.

Insomma: una serata perfetta. Anche perché ad accudirmi c’erano sempre un paio di ragazze che si turnavano, e quasi sempre erano ragazze molto importanti della mia vita, anche se non era obbligatorio. E io non dovevo atteggiarmi, non dovevo trovare discorsi: stavo disteso coi pantaloni slacciati e andavo bene così. Loro erano molto carine e molto materne, alcune mi toccavano la pancia, altre mi toccavano in generale.. Insomma: mi si nota di più se mi accascio in un angolo con la gastrite. Adesso che lo so, chi mi ferma più.
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Due libri e tre gravidanze
La storia dei miei concorsi è una storia di infinite umiliazioni.
L'università ti vizia, ti ammansisce con basse dosi di burocrazia, e soprattutto, quando non è a numero chiuso, t'illude che la quantità non sia un problema, mai: anzi, più si è, più gli esaminatori vorranno sbrigarsela con noi.
Malgrado avessi avuto a disposizione tutti gli elementi necessari a capirlo per tempo, devo ammettere che il risveglio è stato brusco. Sul mercato del lavoro i laureati in lettere valgono molto poco, perché sono troppi. Se si fa un concorso (posto che ci sia un motivo per farlo, a parte la campagna elettorale), essi parteciperanno a migliaia. Così il concorso durerà più di un anno (12 mesi esatti tra lo scritto e l'orale).
"Abbia pazienza", dicevo ieri per telefono a una signorina della sovrintendenza, "ma quel che ho scritto sulla domanda del '99 proprio non me lo ricordo. Voglio dire, per me un anno, un anno e mezzo è praticamente una vita. Ho scritto anche (petulante) un paio di articoli, e..."
"Sì, lo so, che avete tutti scritto due libri, e tre gravidanze, ma il problema è che siete in troppi, per cui se vuole provare a darmi il suo nome e cognome, io andrò a cercare..."
(Contrito)"La ringrazio, la ringrazio tanto..."
Non so esattamente di quanto, ma direi che una gravidanza valga molto di più di una pubblicazione, in termini di punteggio.
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